"Ecco" disse, "dei cani che abbaiano e mordono nello stesso tempo:

      queste  sono  per  i  primi  due  che  avessero  brama  del vostro

      diamante, compare Caderousse."

      Caderousse e sua moglie si scambiarono una cupa occhiata: sembrava

      che entrambi avessero avuto contemporaneamente  qualche  terribile

      pensiero.

      "Allora, buon viaggio" disse Caderousse.

      "Grazie" rispose il gioielliere.

      E preso il bastone che aveva posato contro un vecchio baule, uscì.

      Nell'atto che aprì lo porta entrò un colpo di vento,  che per poco

      non spense la lucerna.

      "Oh" disse,  "va a farsi un bel tempo...  Ed io ho  due  leghe  da

      camminare con questo tempo!"

      Restate disse Caderousse. "Dormirete qui.

      "Sì,  restate  disse Carconta con voce mal ferma.  "Avremo per voi

      tutte le cure."

      "No, bisogna ch'io vada a dormire a Beaucaire. Addio."

      Caderousse andò lentamente fino al limitare della porta.

      "Non si distingue né cielo né  terra"  disse  il  gioielliere  già

      fuori di casa. "Debbo prendere a destra o a sinistra?"

      "A  destra" disse Caderousse.  "Non v'è da sbagliare,  la strada è

      fiancheggiata d'alberi da ambe le parti."

      "Va bene, ci sono" disse la voce, quasi estinta, da lontano.

      "Chiudi dunque la porta" disse  Carconta.  "Non  mi  piacciono  le

      porte aperte quando tuona.

      "E  quando  c'è del danaro in casa,  non è vero?" disse Caderousse

      dando un doppio giro alla serratura.

      Egli rientrò,  andò  all'armadio,  ne  cavò  il  sacchetto  ed  il

      portafogli,  ed  entrambi  si  misero a contare per la terza volta

      l'oro ed i biglietti.  Io non ho mai veduto una espressione simile

      a  quella di quei due visi,  di cui una debole lampada rischiarava

      la cupidigia.  La donna particolarmente era schifosa:  il  tremito

      febbrile  che  abitualmente l'animava,  s'era raddoppiato.  Il suo

      viso  da  pallido  era  divenuto  livido;   gli   occhi   incavati

      fiammeggiavano.

      "Perché dunque" domandò, "gli hai offerto di dormire qui?"

      "Ma"  rispose  Caderousse  con un tremito,  "perché...  perché non

      avesse la pena di ritornare a Beaucaire.'

      "Ah" disse  la  donna  con  un'espressione  impossibile  a  dirsi.

      "Credevo fosse per un altro fine."

      "Donna,  donna!"  gridò  Caderousse.  "Perché  hai simili idee?  e

      perché, avendole, non le serbi tutte per te?"

      "E' lo stesso" disse Carconta dopo un momento di silenzio. "Tu non

      sei un uomo."

      "Come sarebbe a dire?" disse Caderousse.

      "Se tu fossi stato un uomo, non sarebbe uscito di qui.

      "Donna!"

      "Oppure non arriverebbe a Beaucaire."

      "Donna!"

      "La strada fa un gomito,  è obbligato a seguire la strada,  mentre

      lungo il canale s'accorcia."

      "Donna! tu offendi il buon Dio... Tieni, ascolta..."

      Infatti s'intese uno spaventoso tuono, nello stesso tempo un lampo

      rossastro infiammò tutta la scala,  mentre il fulmine, decrescendo

      lentamente,  sembrava  allontanarsi  di  mala  voglia  dalla  casa

      maledetta.

      "Gesù!" disse Carconta segnandosi.

      Nello  stesso  tempo,  ed  in mezzo a quel silenzio di terrore che

      ordinariamente succede  allo  scroscio  di  un  fulmine,  s'intese

      battere alla porta.

      Caderousse e sua moglie fremettero, e si guardarono spaventati.

      "Chi  va  là?"  gridò  Caderousse alzandosi,  e riunendo in un sol

      monte l'oro e i biglietti ch'erano sparsi per  la  tavola,  e  che

      coprì con le mani.

      "Sono io" disse una voce.

      "E chi siete?"

      "Eh, per Bacco! Giovanni il gioielliere!"

      "Ebbene, che dici ora?" riprese Carconta con un terribile sorriso.

      "Offendevo il cielo? Ecco che il cielo pietoso ce lo rimanda!"

      Caderousse ricadde pallido ed anelante sulla sedia.  Carconta,  al

      contrario si alzò, e andò con passo fermo ad aprire la porta.

      "Entrate dunque, caro signor Giovanni."

      "In fede mia" disse il gioielliere bagnato  dalla  pioggia,  "pare

      che  il diavolo non voglia che io ritorni a Beaucaire questa sera.

      Le più corte pazzie sono le  migliori,  mio  caro  Caderousse:  mi

      avete offerto ospitalità, l'accetto, e vengo a dormire da voi."

      Caderousse balbettò qualche parola, asciugandosi il sudore che gli

      grondava  dalla fronte.  Carconta rinchiuse la porta a doppio giro

      di chiave, appena fu entrato il gioielliere."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 44.

                              PIOGGIA DI SANGUE.

 

 

      "Il gioielliere entrando girò uno sguardo investigatore intorno  a

      sé;  ma nulla poteva fargli nascere sospetti,  se non ne aveva,  e

      nulla confermarglieli quando ne avesse avuti.  Caderousse  copriva

      sempre con ambe le mani i biglietti e l'oro.

      Carconta sorrideva al suo ospite più graziosamente che poteva.

      "Ah,  ah"  disse il gioielliere,  "sembra che abbiate paura di non

      aver ricevuto il conto vostro,  che tornavate a contare il  tesoro

      dopo la mia partenza?"

      "No"  disse  Caderousse,  "ma  l'avvenimento  che  ce  ne mette in

      possesso è così inatteso,  che non vi possiamo ancora  credere,  e

      quando  non  abbiamo  la prova materiale sotto gli occhi,  ci pare

      sempre di sognare."

      Il gioielliere sorrise.

      "Avete viaggiatori nel vostro albergo?" domandò.

      "No" rispose Caderousse,  "non  diamo  da  dormire;  siamo  troppo

      vicini alla città, e nessuno si ferma."

      "Allora vi procuro un grandissimo incomodo?"

      "Incomodarci  voi!  Mio  caro  signore" disse con grazia Carconta,

      "niente affatto; ve lo giuro."

      "Vediamo, dove mi metterete?"

      "Nella camera in alto.

      "Ma non è la vostra camera?"

      "Oh,  non importa: abbiamo un secondo letto nella camera di fianco

      a questa.

      Caderousse  guardò  con  meraviglia  la  moglie.   Il  gioielliere

      cantarellò una canzonetta mentre si riscaldava  il  dorso  ad  una

      fascina che Carconta aveva accesa nel caminetto per il suo ospite,

      intanto  apparecchiava  ad  un  angolo della tavola,  su cui aveva

      messa una salvietta,  i magri avanzi di un pranzo a cui unì due  o

      tre uova fresche.

      Caderousse  aveva  nuovamente  chiusi  i biglietti nel portafogli,

      l'oro nel sacchetto, ed il tutto nell'armadio. Egli passeggiava in

      lungo ed in largo,  cupo  e  meditabondo,  alzando  la  testa  sul

      gioielliere,  che  stava  fumando  davanti al caminetto,  e che si

      asciugava da un lato, e poi dall'altro.

      ''Ecco qua" disse Carconta mettendo una  bottiglia  sulla  tavola.

      "Quando vorrete cenare, tutto è pronto." E voi? domandò Giovanni.

      "Io non cenerò" rispose Caderousse.

      "Abbiamo pranzato tardissimo" si affrettò a dire Carconta.

      "Cenerò dunque solo?" disse il gioielliere.

      "Vi  serviremo"  disse  Carconta,  con  una premura che non le era

      naturale, neppure cogli ospiti del suo paese.

      Ogni tanto Caderousse le lanciava degli  sguardi  rapidi  come  il

      baleno.

      L'uragano continuava.

      "Sentite?  sentite?" diceva Carconta.  "Avete fatto molto bene, in

      fede mia, a ritornare."

      "Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante  la  mia

      cena io ritorni a mettermi in viaggio."

      "Spira  maestrale"  disse  Caderousse scuotendo la testa.  "Avremo

      questo tempo fino a domani."

      E dicendo ciò, mandò un sospiro.

      "Accidenti" disse  il  gioielliere  mettendosi  a  tavola.  "Tanto

      peggio per quelli che sono fuori."

      "Sì" soggiunse Carconta, "passeranno una cattiva notte."

      Il  gioielliere cominciò la cena,  e la Carconta continuò ad avere

      per lui tutte le piccole premure di un'attività albergatrice, essa

      d'ordinario così dispettosa e strana era divenuta il modello della

      pulizia e delle premure.  Se il  gioielliere  l'avesse  conosciuta

      prima,  si  sarebbe  certamente  meravigliato  di  un  così grande

      mutamento,  e  ciò  non  avrebbe  mancato  di  ispirargli  qualche

      sospetto.   In  quanto  a  Caderousse,   non  diceva  una  parola,

      continuava ad andare su e giù per la stanza,  e  sembrava  perfino

      non osasse guardare il suo ospite.

      Quando la cena fu terminata, Caderousse andò egli stesso ad aprire

      la porta.

      "Credo che l'uragano si calmi..." disse.

      Ma  nello  stesso  momento,  come  per  dargli  una  smentita,  un

      terribile scroscio di tuono fece tremare la casa,  e l'impeto  del

      vento pervenne a spegnere la lucerna.

      Caderousse rinchiuse la porta;  e sua moglie accese una candela al

      fuoco che stava estinguendosi.

      "Prendete" disse lei al gioielliere.  "Dovete essere stanco...  Ho

      messo lenzuola di bucato al letto, salite per riposarvi, e dormite

      bene."

      Giovanni  si  fermò  ancora  un  momento  per  assicurarsi  se  il

      temporale non si calmasse,  e quando fu certo che il  tuono  e  la

      pioggia non facevano che aumentare,  augurò la buona notte ai suoi

      albergatori e salì la scala.

      Egli passava sopra  la  mia  testa,  e  sentivo  ciascuno  scalino

      scricchiolare sotto i suoi passi.

      Carconta lo seguì con occhio avido, mentre Caderousse gli voltò le

      spalle, e non guardò neppure da quella parte.

      Tutti  questi  particolari,  che mi sono poi ritornati in memoria,

      non mi fecero allora alcuna impressione mentre avvenivano sotto  i

      miei  occhi,  e  non  c'era  nulla  di  straordinario  in  ciò che

      accadeva,  eccettuata la storia del diamante che  mi  sembrava  un

      poco inverosimile.

      Così,  essendo  spossato dalla fatica,  e contando di approfittare

      della prima pausa della tempesta, decisi di dormire lì alcune ore,

      e di allontanarmi nel mezzo della notte.

      Sentivo nella camera superiore che  anche  il  gioielliere  faceva

      tutti  i  preparativi  per passare la notte il meglio che potesse.

      Ben presto il letto scricchiolò sotto il suo peso;  era  andato  a

      riposare.  Sentivo i miei occhi chiudersi mio malgrado,  e siccome

      non avevo alcun  sospetto,  così  mi  abbandonai  al  sonno,  però

      lanciando un ultimo sguardo nell'interno della cucina.

      Caderousse  era  seduto  di fianco ad una lunga tavola,  su una di

      quelle panche di legno in uso  negli  alberghi  dei  villaggi.  Mi

      voltava  le spalle,  e non potevo vederne i lineamenti,  teneva il

      viso sepolto nelle mani.

      La Carconta lo guardò per qualche  tempo,  poi  si  strinse  nelle

      spalle e andò a sedersi vicino a lui. La fiamma morente si appiccò

      ad  un  avanzo  di  legno dimenticato,  una luce un po' più vivace

      illuminò l'interno.

      Carconta teneva gli occhi  fissi  sul  marito,  e  siccome  questi

      rimaneva sempre nella stessa posizione,  la vidi stendere verso di

      lui la scarna mano, e toccarlo in fronte...

      Caderousse fremette.

      Mi sembrò che la donna movesse le  labbra,  ma  sia  che  parlasse

      troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi dal sonno, il

      suono della sua voce non giunse fino a me.

      Non ci vedevo che attraverso una nebbia; era quella incertezza del

      sonno,  nella quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i

      miei occhi si chiusero, e persi conoscenza.

      Ero nel più profondo del sonno,  quando fui svegliato da un  colpo

      di pistola seguito da un grido terribile.

      Udii alcuni passi barcollanti nella stanza di sopra, poi una massa

      inerte cadde dalle scale.

      Non  ero  ancora ben padrone di me.  Intesi dei gemiti,  poi delle

      grida soffocate come per una lotta.

      Un ultimo grido,  che terminò in un  gemito  prolungato,  venne  a

      togliermi del tutto dal mio letargo.

      Mi  sollevai  sopra  un braccio,  aprii gli occhi,  che non videro

      niente nelle tenebre, e portai la mano alla fronte, sulla quale mi

      pareva che cadesse dalle fenditure della scala una pioggia tiepida

      ed abbondante.

      Il più profondo silenzio era succeduto a questo spaventoso rumore.

      Intesi il passo di un uomo che camminava di  sopra;  questi  passi

      fecero scricchiolare la scala. Poi l'uomo discese nella stanza, si

      avvicinò al caminetto, ed accese una candela.

      Era Caderousse;  aveva il viso pallido, e la camicia insanguinata.

      Accesa la candela risalì rapidamente la scala, e intesi di nuovo i

      suoi passi rapidi e tremolanti.

      Un momento dopo tornò a scendere; teneva in una mano l'astuccio, e

      si assicurò che vi fosse ancora il diamante.  Cercò un momento  in

      quale delle sue tasche doveva metterlo;  quindi senza dubbio,  non

      ritenendo la tasca un nascondiglio abbastanza sicuro,  lo  avvolse

      nel fazzoletto rosso, che si legò al collo. Poi corse all'armadio,

      ne  cavò  i biglietti e l'oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi

      calzoni,  l'altro nella tasca del  suo  abito,  prese  due  o  tre

      camicie, si lanciò verso la porta, e sparì nell'oscurità.

      Allora  tutto fu chiaro e manifesto;  mi figurai l'accaduto,  come

      fossi stato il colpevole.

      Mi sembrò sentire dei gemiti: il  gioielliere  poteva  non  essere

      ancora morto;  forse potevo riparare,  apportandogli soccorso, una

      parte di quel male che non avevo  fatto,  ma  che  avevo  lasciato

      fare.

      Appoggiai  le  spalle  contro l'assito di quella specie di tamburo

      che mi separava dalla sala inferiore,  l'assito cedette ed  io  mi

      ritrovai in casa.

      Corsi a prendere la candela,  e mi lanciai verso la scala un corpo

      la sbarrava di traverso...  era il  cadavere  della  Carconta.  Il

      colpo di pistola che avevo udito era stato scaricato su lei: aveva

      la  gola  trapassata  da  parte  a parte,  e vomitava sangue dalla

      bocca.

      Scavalcai il suo corpo e passai.  La camera offriva l'aspetto  del

      più spaventoso disordine. Due o tre mobili erano stati rovesciati;

      il   lenzuolo,   al   quale   si  era  aggrappato  il  disgraziato

      gioielliere, era steso sul pavimento; egli stesso giaceva a terra,

      colla testa appoggiata contro il muro in un mare  di  sangue,  che

      scaturiva da tre larghe ferite al petto.  Nella quarta era rimasto

      un lungo coltello da cucina di cui non si vedeva  che  il  manico.

      Inciampai  nella  seconda  pistola,  che  non aveva sparato perché

      forse la polvere era bagnata.

      Mi avvicinai al gioielliere,  effettivamente non era  morto:  aprì

      gli occhi stravolti,  giunse a fissarli un momento su me, agitò le

      labbra come se avesse voluto parlare, e spirò.

      Questo truce spettacolo mi aveva reso quasi insensato. Dal momento

      che non potevo più arrecare soccorso ad alcuno,  non provai che un

      solo  bisogno,   cioè  di  fuggire.  Mi  precipitai  dalla  scala,

      cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un grido di terrore.

      Nella sala terrena c'erano cinque o sei  doganieri  e  due  o  tre

      gendarmi.  Un  intero picchetto d'armati.  S'impadronirono di me e

      non tentai nemmeno di fare resistenza,  non ero  più  padrone  dei

      miei  nervi.  Tentai  di  parlare  e  non  emisi che qualche grido

      inarticolato;  vidi che i doganieri ed i gendarmi mi mostravano  a

      dito,  volsi  gli  occhi su me stesso,  e m'accorsi allora che ero

      tutto pieno di sangue.

      Quella pioggia tiepida  che  avevo  sentito  cadermi  sopra  dalle

      fenditure dei gradini della scala, era il sangue di Carconta.

      Mostrai col dito il luogo dov'ero nascosto.

      "Che vuoi dire?" domandò un gendarme.

      Un doganiere andò a vedere.

      "Vuol dire ch'è passato di là" rispose.

      E mostrò l'apertura per la quale effettivamente ero passato.

      Allora capii che venivo preso per l'assassino.  Ricuperai la voce,

      e ritrovai la forza;  mi sciolsi dalle mani dei due uomini che  mi

      tenevano gridando:

      "Non sono stato io! non sono stato io!"

      Due gendarmi mi presero di mira colle carabine.

      "Se fai un movimento" mi dissero, "sei morto!"

      "Ma" gridai, "vi ripeto che non sono stato io."

      "Racconterai  la  tua  storiella  ai  giudici  di  Nimes" dissero.

      ''Intanto vieni con noi; e se vuoi un buon consiglio è di non fare

      resistenza."

      Questa non era la mia intenzione: ero spossato  dalla  sorpresa  e

      dal terrore.  Mi furono messe le manette,  fui attaccato alla coda

      di un cavallo e fui condotto a Nimes.

      Ero stato seguito da un doganiere che mi aveva  perduto  di  vista

      nelle vicinanze della casa,  e pensando che vi avrei passata tutta

      la notte,  andò ad avvisare i compagni,  che giunsero in tempo per

      sentire di lontano il colpo di pistola, e per cogliere me in mezzo

      a tante prove di colpevolezza.

      Capii  quanto  mi  sarebbe costato far conoscere la mia innocenza.

      Non avevo che un sol punto di appoggio;  e la  prima  domanda  che

      feci  al  giudice istruttore fu una preghiera: che fosse ricercato

      un certo abate Busoni,  in quel giorno fermatosi  all'albergo  del

      Ponte di Gard.

      Se  Caderousse  aveva  inventata  una  storia,  se quest'abate non

      esisteva,  ero  evidentemente  perduto,   a  meno  che  non  fosse

      arrestato Caderousse e confessasse tutto.

      Passarono due mesi,  durante i quali,  debbo dirlo a lode dei miei

      giudici, furono fatte le possibili ricerche per ritrovare l'abate.

      Avevo perduto ogni speranza;  Caderousse non era stato  arrestato.

      Ero  vicino  ad  essere giudicato nella prima seduta,  allorché il

      giorno  8  settembre,   cioè  tre  mesi  e  cinque   giorni   dopo

      l'avvenimento,  l'abate  Busoni,  sul  quale  non speravo più,  si

      presentò alle carceri,  dicendo  che  sapeva  che  un  prigioniero

      desiderava parlargli. Aveva saputo, diceva, la cosa a Marsiglia, e

      si affrettava ad accorrere.

      Capirete con quale ardore lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di

      cui  ero  stato testimonio: cominciai con esitazione la storia del

      diamante. Contro ogni mia aspettativa, era vera punto per punto, e

      contro ogni mia aspettativa ancora egli prestò piena fede a  tutto

      ciò che gli dissi.

      Allora  convinto  dalla  sua  dolce carità,  ravvisando in lui una

      profonda conoscenza dei costumi del mio paese,  e pensando che  la

      parola  del  perdono del solo delitto che avevo commesso nella mia

      vita, poteva forse uscire dalle sue labbra tanto caritatevoli, gli

      raccontai,  sotto  il  suggello  della  confessione,   l'avventura

      d'Auteuil in tutti i suoi particolari.

      La   confessione  di  questo  primo  assassinio,   che  niente  mi

      costringeva a confessare,  gli provò ch'io non avevo  commesso  il

      secondo:  mi lasciò,  dicendomi di sperare e promettendomi di fare

      ciò che sarebbe stato in suo potere per convincere i giudici della

      mia innocenza.

      Ebbi infatti la prova ch'egli si era occupato di me,  quando  vidi

      addolcirsi i trattamenti che ricevevo nella mia prigione,  e seppi

      che veniva differito il giudizio alle sedute che sarebbero venute.

      In quest'intervallo la  Provvidenza  volle  che  Caderousse  fosse

      arrestato all'estero e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto,

      aggravando la moglie della premeditazione, e particolarmente della

      istigazione,  e fu condannato alla galera a vita.  Io fui messo in

      libertà."

      "E fu allora" disse Montecristo,  "che vi presentaste a  me  colla

      lettera dell'abate Busoni."

      "Sì, Eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interesse.

      "Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà" mi disse.  "Se voi

      uscite di qui, lasciatelo."

      "Ma, padre" gli chiesi,  "come volete che faccia a vivere ed a far

      vivere la mia povera cognata?"

      "Uno  dei  miei penitenti" disse,  "mi ha in molta stima,  e mi ha

      incaricato  di  trovargli  un  uomo  di  fiducia.   Volete  essere

      quest'uomo? Vi raccomanderò a lui!

      "Oh! padre" gridai, "quanta bontà!"

      "Ma mi promettete che non avrò mai a pentirmene?"

      Stesi la mano per fare il mio giuramento.

      "E'  inutile"  diss'egli,  "conosco  ed  amo  i corsi: ecco la mia

      raccomandazione.

      E scrisse le poche righe che vi portai,  e  per  le  quali  Vostra

      Eccellenza ebbe la bontà di prendermi al suo servizio. Ora domando

      con orgoglio a Vostra Eccellenza: ha mai dovuto lamentarsi di me?"

      "No"  rispose  il  conte,  "e  lo dico con piacere,  siete un buon

      servitore quantunque manchiate di confidenza."

      "Io, signor conte?"

      "Sì, voi. Come, avete una cognata ed un figlio adottivo,  e non mi

      avete mai parlato di loro?"

      "Ahimè,  Eccellenza,  questo è quanto mi rimane da dirvi,  ed è la

      parte più triste della mia vita...

      Partii per la Corsica: avevo fretta, come potrete bene immaginarvi

      d'andare a consolare quella ch'io chiamavo mia sorella,  ma quando

      giunsi  a Rogliano trovai la casa in lutto.  Era accaduta una cosa

      orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria!

      La mia povera cognata,  secondo quanto le avevo  consigliato,  non

      cedette più alle pretese di Benedetto,  che ad ogni momento voleva

      denaro.  Una mattina egli la minacciò,  e poi sparì per  tutto  il

      giorno.  Lei pianse. La povera Assunta aveva per il miserabile una

      tenerezza materna.  Giunse la sera,  e lo aspettò senza  andare  a

      letto. Alle undici entrò con due dei suoi amici, compagni di tutte

      le sue follie. Lei gli stese le braccia, ma questi s'impadronirono

      di lei,  ed uno dei tre (io temo sia stato quel diabolico ragazzo)

      gridò:

      "Torturiamola,  bisognerà bene che confessi dove tiene nascosto il

      suo denaro.

      Il vicino Basilio era a Bastia,  e sua moglie soltanto era rimasta

      in casa. Nessuno, eccettuata lei,  poteva vedere o sentire ciò che

      accadeva  in  casa  mia.  Due  di  loro  tenevano  ferma la povera

      Assunta,  che,  non potendo credere alla possibilità di un  simile

      eccesso,  sorrideva  ai  carnefici,  il  terzo andò a barricare la

      porta e le finestre. Quando tornò,  tutti e tre riuniti soffocando

      le  grida  che  il  terrore le strappava,  avvicinarono i piedi di

      Assunta ad un braciere.  Ma nella lotta il fuoco si  appiccò  alle

      vesti:  lasciarono  allora  la  poveretta  per non essere bruciati

      anch'essi. Fra le fiamme ella corse alla porta, ma era chiusa,  si

      slanciò  verso  le  finestre ma erano barricate.  Allora la vicina

      intese delle grida orribili, era Assunta che chiamava soccorso.

      Ben presto la sua voce fu soffocata, e le grida divennero gemiti.

      L'indomani,  dopo una notte di  terrore  e  d'angoscia  quando  la

      moglie  di  Basilio  osò uscire di casa,  fece aprire la porta dal

      giudice: fu ritrovata la povera Assunta per metà bruciata,  ma che

      respirava  ancora,  gli  armadi  forzati,  ed  il  piccolo  tesoro

      sparito. Benedetto aveva lasciato Rogliano per non tornarvi più, e

      da quel giorno non l'ho più veduto,  né ho sentito parlare di lui.

      Dopo queste tristi notizie, venni da Vostra Eccellenza. Non potevo

      più  parlarvi  di  Benedetto,  perché  era sparito,  né di Assunta

      perché era morta."

      "E che avete pensato di ciò?" domandò Montecristo.

      "Che quello  era  stato  il  castigo  del  delitto  che  io  avevo

      commesso" rispose Bertuccio. "Ah, questi Villefort, sono una razza

      maledetta!"

      "Lo credo anch'io" mormorò il conte con accento lugubre.

      "Ed  ora" rispose Bertuccio,  "Vostra Eccellenza comprenderà,  che

      questa casa che  da  allora  non  avevo  più  veduta,  che  questo

      giardino  dove  mi  sono ritrovato d'improvviso,  che questo luogo

      dove ho ammazzato un uomo,  devono avermi procurato  quelle  forti

      emozioni  delle  quali ha voluto conoscere l'origine.  Inoltre non

      sono certo che davanti a me,  là ai miei piedi,  Villefort non sia

      stato sepolto nella fossa ch'egli aveva scavata per suo figlio."

      "Infatti  tutto  è  possibile" disse Montecristo,  levandosi dalla

      panca su cui era seduto,  "ed anche" soggiunse a bassa voce,  "che

      il procuratore del re non sia morto.  L'abate Busoni ha fatto bene

      ad indirizzarvi a me.  E voi avete fatto  bene  a  raccontarmi  la

      vostra storia;  perché non avrò più sospetti a vostro riguardo. In

      quanto a codesto malchiamato Benedetto,  non avete mai cercato  di

      sapere ciò che ne sia avvenuto?"

      "No,  mai. Se avessi saputo dov'era, invece d'andare da lui, sarei

      fuggito come davanti ad un mostro. No,  fortunatamente,  non ne ho

      inteso mai parlare da chicchessia; e spero che sia morto."

      "Non lo sperate, Bertuccio" disse il conte. "I cattivi non muoiono

      così, sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per farne gli

      strumenti della sua giustizia."

      "Sia"  disse Bertuccio.  "Tutto ciò però che io domando al cielo è

      che non lo  abbia  mai  a  rivedere.  Ora"  continuò  l'intendente

      abbassando la testa, "voi sapete tutto, signor conte, siete il mio

      giudice   quaggiù...   Non   vorrete   dirmi   qualche  parola  di

      consolazione?"

      "Infatti avete ragione,  ed io posso  dirvi  ciò  che  vi  direbbe

      l'abate Busoni.  Colui che avete colpito,  meritava un castigo per

      ciò  che  aveva  fatto  a  voi,  e  fors'anche  a  qualche  altro.

      Benedetto,  se vive, servirà a qualche giustizia divina, poi a sua

      volta sarà punito.  In quanto a voi,  non avete più rimproveri  da

      farvi.  Chiedetevi  piuttosto perché,  avendo salvato questo bimbo

      dalla morte,  non lo rendeste a sua madre:  qui  sta  il  delitto,

      Bertuccio."

      "Sì,  signore, quello è il mio delitto, il vero delitto, perché in

      questo,  sono stato un vile.  Una volta richiamato  alla  vita  il

      bambino,  non  avevo  che  una sola cosa da fare,  voi lo diceste:

      farlo sapere a sua madre.  Ma mi necessitava fare delle  ricerche,

      attirare l'attenzione,  e forse scoprirmi.  Non volli morire,  ero

      attaccato alla vita per  il  sostentamento  di  mia  cognata,  per

      l'amore  di  me  stesso,  innato  in ciascuno,  per rimaner sano e

      libero nelle mie vendette,  infine ero attaccato alla  vita  anche

      per l'amore stesso della vita.  Oh,  non sono un brav'uomo come lo

      era mio fratello!"

      E Bertuccio si nascose il viso fra le mani.

      Montecristo fisso su lui un lungo ed indefinito sguardo.

      Dopo un momento di silenzio reso ancora più solenne dall'ora e dal

      luogo:

      "Per terminare degnamente questa conversazione,  che sarà l'ultima

      su  tali avventure,  Bertuccio" disse il conte,  "ritenete bene le

      mie parole,  le ho spesso intese pronunciare  dallo  stesso  abate

      Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedi: il tempo e il silenzio.

      Ora,  Bertuccio,  lasciatemi  passeggiare  un  momento  in  questo

      giardino.  Ciò che rammenta a  voi  un'emozione  ripugnante,  come

      attore  di  quell'orribile  scena,  darà  a  me  sensazioni  quasi

      piacevoli, come raddoppiassero il valore di questa proprietà.  Gli

      alberi non piacciono se non perché danno l'ombra, e l'ombra stessa

      non  piace  se non perché è piena di sogni e di visioni.  Ecco che

      compro un giardino,  credendo  d'acquistare  un  semplice  recinto

      circondato da muri,  e d'improvviso si cambia in un giardino pieno

      di fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi,  e non

      ho mai inteso dire che i morti abbiano in seimila anni fatto tanto

      male,  quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque,

      Bertuccio, e andate a dormire in pace."

      Bertuccio s'inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò

      mandando un sospiro.

      Montecristo rimase  solo;  e  facendo  quattro  passi  in  avanti,

      mormorò:

      "Qui,  vicino  a  questa  pianta,  la  fossa  in cui fu deposto il

      bambino;  laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino:

      in quest'angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto.

      Credo  di  non  aver  bisogno  di  descrivere  tutto  ciò  nel mio

      taccuino,  perché ecco qua,  davanti ai miei occhi,  intorno a me,

      sotto i miei piedi, il piano in rilievo, il piano vivente."

      Ed  il  conte,  dopo  un  ultimo  giro  in  quel giardino,  andò a

      raggiungere la  sua  carrozza.  Bertuccio  che  lo  vide  assorto,

      s'assise  presso  il  cocchiere.  La carrozza riprese la strada di

      Parigi.

      La sera stessa, al suo ritorno nella casa degli Champs-Elysées, il

      conte di Montecristo visitò tutta l'abitazione come avrebbe potuto

      fare un uomo a cui fosse stata famigliare da molti anni.

      Alì lo accompagnava in questa visita notturna.  Il conte  dette  a

      Bertuccio molti ordini per l'abbellimento e la nuova distribuzione

      degli appartamenti. Poi cavando l'orologio disse all'attento moro:

      "Sono le undici e mezzo.  Haydée non può tardare ad arrivare. Sono

      state avvertite le cameriere francesi?"

      Alì stese la mano verso l'appartamento destinato alla bella  greca

      (talmente isolato, che nascondendo la porta dietro la tappezzeria,

      la  casa  poteva  essere  visitata  per  intero,  senza che alcuno

      potesse sospettare esservi  un  salotto  e  due  camere  abitate),

      mostrò  il  numero  tre  con  la mano sinistra,  e su questa mano,

      appoggiò la testa, e chiuse gli occhi come dormiente.

      "Ah"  fece  Montecristo,   abituato  a  questo  linguaggio,   "tre

      aspettano nella camera da letto, non è così?"

      "Sì" fece Alì, agitando la testa.

      "La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire"

      continuò Montecristo, "che nessuno la faccia parlare. Le cameriere

      francesi   devono  soltanto  salutare  la  loro  nuova  padrona  e

      ritirarsi e voi sorveglierete perché la cameriera greca non  abbia

      comunicazione colle francesi."

      Alì s'inchinò.

      Ben presto fu inteso chiamare il portinaio; il cancello s'aprì una

      carrozza  percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata.  Il

      conte scese: la porticina era già aperta,  egli stese la  mano  ad

      una  giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che

      la copriva tutta, fin dalla testa.

      Allora,  preceduta da Alì che portava una torcia  dal  profumo  di

      rose,  la giovane fu condotta al suo appartamento, quindi il conte

      si ritirò nel padiglione che si era riservato.

      Mezz'ora dopo mezzanotte tutti i lumi erano spenti nella  casa,  e

      si sarebbe potuto credere che tutti dormissero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 45.

                            IL CREDITO ILLIMITATO.

 

 

      L'indomani  verso  le  due  dopo mezzogiorno,  un elegante calesse

      tirato da due magnifici cavalli inglesi,  si  fermò  davanti  alla

      porta di Montecristo.  Un uomo vestito con un abito turchino,  con

      bottoni di seta dello stesso colore un corpetto bianco  sormontato

      da  una  enorme  catena  d'oro,  pantaloni neri,  capelli neri che

      scendevano sulle sopracciglia e non parevano naturali, tanto erano

      poco in armonia colle rughe sparse;  un uomo infine di  cinquanta-

      cinquantacinque  anni,  e  che cercava di dimostrarne quaranta dal

      volto,  sporse la testa dal finestrino della carrozza,  che  aveva

      dipinta  sullo sportello una corona di barone,  e mandò il groom a

      domandare al portinaio se il conte di Montecristo era in casa.

      Mentre aspettava,  quest'uomo osservava con una attenzione minuta,

      quasi   impertinente,   l'esterno   della   casa,   quanto  poteva

      distinguersi dal giardino,  e la livrea di quei domestici  che  si

      potevano  vedere  andare  e  venire.  L'occhio  di  quest'uomo era

      vivace,  ma piuttosto furbo che spiritoso.  Le labbra  erano  così

      sottili  che,  invece  di  sporgere  in  fuori,  si ripiegavano in

      dentro.

      La larghezza e la protuberanza  degli  zigomi,  segno  infallibile

      d'astuzia,   la   depressione   della  fronte,   il  rigonfiamento

      dell'occipite  che  sorpassava  un  paio  d'orecchie   non   certo

      aristocratiche,  contribuivano  a  dare un aspetto spiacevole alla

      fisonomia di questo personaggio,  che molto si  raccomandava  agli

      occhi  del  volgo  per  i  suoi  magnifici  cavalli,  per l'enorme

      diamante che portava alla camicia,  e per il nastro  rosso  da  un

      capo all'altro della bottoniera dell'abito.

      Il groom bussò all'invetriata del portinaio, domandando:

      "Non è qui che abita il conte di Montecristo?"

      "E' qui che abita Sua Eccellenza" rispose il portinaio "ma..."

      E consultò con uno sguardo Alì, che fece un segno negativo.

      "Ma?" domandò il groom.

      "Sua Eccellenza non può ricevere" rispose il portinaio.

      "In questo caso,  ecco il biglietto da visita del mio padrone,  il

      barone Danglars...  Lo consegnerete al conte di Montecristo e  gli

      direte  che  andando alla Camera,  il mio padrone è passato di qui

      per aver l'onore di vederlo."

      "Io non parlo a Sua Eccellenza" rispose  il  portinaio,  "però  il

      cameriere farà l'ambasciata."

      Il groom ritornò alla carrozza.

      "Ebbene?" domandò Danglars.

      Il ragazzo,  abbastanza vergognoso della lezione ricevuta,  ripeté

      al padrone la risposta del portinaio.

      "Oh" fece questi,  "è dunque un principe questo signore che  viene

      detto  Eccellenza,  e  a  cui  solo  il cameriere ha il diritto di

      parlare? Non importa, poiché ha un credito su me, bisogna bene che

      lo veda, quando avrà bisogno di denaro."

      E Danglars si ritrasse  nel  fondo  della  carrozza,  gridando  al

      cocchiere,  in  modo che si sarebbe sentito dall'altra parte della

      strada:

      "Alla Camera dei deputati!"

      Da una persiana del padiglione,  Montecristo  avvisato  in  tempo,

      aveva  visto  il  barone,  e lo aveva osservato,  coll'aiuto di un

      eccellente occhialino con non  minore  attenzione  di  quella  che

      Danglars  aveva  messa  ad analizzare la casa,  il giardino,  e le

      livree.

      "Davvero" disse con un gesto di disgusto e  facendo  rientrare  le

      lenti   dell'occhialino   nel   loro  manico  d'avorio,   "davvero

      quest'uomo è una laida creatura.  Come mai,  dalla prima volta che

      lo  vedono,  non riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata,

      l'avvoltoio dal cranio  rotondeggiante,  lo  sparviero  dal  becco

      acuto?"

      "Alì" gridò, poi batté un colpo sul campanello di rame.

      Alì comparve.

      "Chiamate Bertuccio" disse il conte.

      Nello stesso momento entrò Bertuccio.

      "Forse Vostra Eccellenza mi faceva chiamare?" disse l'intendente.

      "Sì,  signore" disse il conte. "Avete veduti i cavalli che si sono

      fermati davanti alla mia porta?"

      "Certamente, Eccellenza, sono molto belli."

      "E com'è dunque" disse Montecristo  aggrottando  il  sopracciglio,

      "che  mentre  ho  ordinato  i  due  più  bei cavalli che fossero a

      Parigi,  vi siano ancora nelle scuderie dei cavalli più belli  dei

      miei?"

      All'aggrottarsi  delle  sopracciglia,  ed al tono severo di quella

      voce, Alì abbassò la testa ed impallidì.

      "Non è colpa tua,  buon Alì" disse  in  arabo  il  conte  con  una

      dolcezza  che non si sarebbe sospettata né nella sua voce,  né sul

      suo viso. "Tu non t'intendi di cavalli inglesi."

      La serenità ricomparve sui lineamenti d'Alì.

      "Signor conte" disse Bertuccio,  "i cavalli di cui mi parlate  non

      erano in vendita."

      Montecristo si strinse nelle spalle.

      "Sappiate,  signor intendente" disse,  "che tutto è in vendita per

      chi sa fissare il prezzo."

      "Il signor  Danglars  li  ha  pagati  sedicimila  franchi,  signor

      conte."

      "Ebbene,   bisognava  offrirgliene  trentaduemila...   Egli  è  un

      banchiere,  e un banchiere non si lascia mai sfuggire  l'occasione

      di raddoppiare il suo capitale."

      "Il signor conte parla sul serio?" domandò Bertuccio.

      Montecristo  guardò  l'intendente stupito che avesse ardito fargli

      una simile domanda.

      "Questa sera" disse, "ho una visita da restituire. Voglio che quei

      cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi."

      Bertuccio si ritirò salutando, vicino alla porta si fermò:

      "A che ora" chiese, "Vostra Eccellenza conta di fare la visita?"

      "Alle cinque" disse Montecristo.

      Poi volgendosi ad Alì:

      "Fate passare tutti i cavalli davanti alla signora" disse,  "e lei

      scelga  la  pariglia  che più le piace;  e mi faccia dire se vuole

      pranzare   con   me,    in   questo   caso    sia    apparecchiato

      nell'appartamento  di  lei.   Andate,  e  scendendo  mandatemi  il

      cameriere."

      Non appena uscito Alì, entrò il cameriere.

      "Battistino" disse il conte, "è ormai un anno che voi siete al mio

      servizio: questo è l'apprendistato che di solito  fisso  alla  mia

      servitù: sono contento di voi."

      Battistino s'inchinò.

      "Resta ora da sapere se voi siete contento di me."

      "Oh, signor conte!" si affrettò a dire Battistino.

      "Ascoltatemi  sino  alla  fine"  riprese  il  conte.   "Voi  avete

      millecinquecento franchi l'anno di salario,  vale a dire il  soldo

      di  un  bravo  ufficiale che arrischia la sua vita tutti i giorni;

      avete una tavola che  molti  capiufficio,  servitori  disgraziati,

      infinitamente  più  occupati di voi,  non potrebbero desiderare di

      meglio.  Domestico,  voi stesso avete dei domestici che hanno cura

      della   vostra   biancheria   e   dei  vostri  effetti.   Oltre  a

      millecinquecento franchi di paga, voi mi rubate negli acquisti del

      mio vestiario, circa altri millecinquecento franchi ogni anno."

      "Oh, Eccellenza!"

      "Io  non  me  ne  lamento,  Battistino,  è  cosa  naturale;   però

      desidererei  che  la  cosa  si  limitasse  qui.   Voi  dunque  non

      ritrovereste un posto simile a  quel  che  vi  ha  dato  la  buona

      fortuna.  Io  non percuoto mai la mia servitù,  non bestemmio mai,

      non mento mai,  non  vado  mai  in  collera,  perdono  sempre  uno

      sbaglio,  non mai però una negligenza, od una dimenticanza. I miei

      ordini sono ordinariamente brevi, ma chiari e precisi;  preferisco

      ripeterli  due  e anche tre volte,  che vederli male interpretati.

      Sono abbastanza ricco di esperienze,  e sono curiosissimo,  ve  ne

      prevengo.  Se  io  sapessi  dunque che voi aveste parlato di me in

      bene o in male,  che aveste fatto dei commenti sulle  mie  azioni,

      sorvegliata la mia condotta, uscireste sul momento da casa mia: io

      non avverto un servitore che una sola volta.  Ora siete avvertito.

      Andate!"

      Battistino s'inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi.

      "A proposito" riprese il conte,  "dimenticavo di  dirvi  che  ogni

      anno  metto  a  frutto  un  certo  capitale  sulla  vita  dei miei

      domestici.   Quelli  che  licenzio  dal   mio   servizio   perdono

      necessariamente  questa  somma,  che  va in profitto di quelli che

      rimangono, e della quale godranno il possesso dopo la mia morte. E

      passato l'anno che siete al mio servizio,  ed il vostro capitale è

      già incominciato; sappiatelo accumulare."

      Questo  discorso,  fatto  davanti ad Alì che rimaneva impassibile,

      poiché non capiva una parola di francese,  produsse su  Battistino

      un  effetto  intuibile  da tutti coloro che conoscono l'indole del

      domestico francese.

      "Cercherò di conformarmi su tutti i punti alla volontà  di  Vostra

      Eccellenza"  diss'egli,  "e  per far meglio,  seguirò l'esempio di

      Alì."

      "Oh,  niente affatto" disse il conte con una freddezza  di  marmo.

      "Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate

      dunque su di lui. Poi egli è un'eccezione: non ha stipendio, non è

      un domestico,  è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo

      dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!"

      Battistino aprì due grandi occhi.

      "Voi ne dubitate?" disse Montecristo.

      E ripeté in arabo ad Alì le  stesse  parole  che  aveva  dette  in

      francese a Battistino.

      Alì ascoltò,  sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a

      terra e gli baciò rispettosamente la mano.

      Questo piccolo corollario alla lezione mise al colmo lo stupore di

      Battistino, cui il conte fece segno di ritirarsi,  mentre ordinava

      ad  Alì  di seguirlo.  Entrambi passarono nel suo studio,  e là si

      trattennero lungamente.

      Alle cinque il conte batté tre  colpi  sul  campanello.  Un  colpo

      chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio.

      L'intendente entrò.

      "I miei cavalli!" disse Montecristo.

      "Sono  attaccati  alla  carrozza,  Eccellenza"  rispose Bertuccio.

      "Devo accompagnare Vostra Eccellenza?"

      "No, soltanto il cocchiere, Battistino, ed Alì."

      Il conte discese e vide attaccati  alla  carrozza  i  cavalli  che

      nella  mattina aveva ammirati alla carrozza di Danglars.  Passando

      vicino ad essi vi gettò un occhiata:

      "Di fatto sono belli!"  diss'egli.  "E  voi  avete  fatto  bene  a

      comprarli, solo lo avete fatto un poco tardi."

      "Ho durato molta fatica ad averli, e sono costati un po' cari."

      "Non  per  questo  i  cavalli  sono  meno  belli"  disse il conte,

      stringendosi nelle spalle.

      "Se Vostra Eccellenza è soddisfatta" disse  Bertuccio,  "tutto  va

      bene... Dove va Vostra Eccellenza?"

      "Rue Chaussée d'Antin, dal barone Danglars."

      Questa conversazione si faceva dall'alto della scalinata.

      Bertuccio fece un passo per scendere il primo scalino.

      "Aspettate,  signore" disse Montecristo,  "ho bisogno di una terra

      in Normandia sulla riva del mare,  per  esempio  fra  Le  Havre  e

      Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in

      questo  luogo  vi  fosse  un piccolo porto,  un piccolo seno,  una

      piccola baia, dove potesse entrare ed uscire la mia corvetta; essa

      non pesca che quindici piedi d'acqua. Il bastimento sarà sempre in

      ordine per mettere alla vela,  a qualunque ora del giorno e  della

      notte  mi piaccia dargli il segnale.  Voi v'informerete da tutti i

      notai di una proprietà che abbia i pregi che vi ho  detto.  Quando

      l'avrete trovata,  andrete a visitarla, e se rimarrete contento la

      comprerete a vostro nome.  La corvetta deve essere in viaggio  per

      Fecamp, non è vero?"

      "La  stessa  sera  che noi abbiamo lasciato Marsiglia,  io la vidi

      mettere alla vela."

      "E lo yacht?"

      "Lo yacht ha ordine di star fermo alla Martigues."

      "Va bene.  Vi metterete in contatto di  tanto  in  tanto  coi  due

      padroni che comandano, affinché non si addormentino."

      "E per il battello a vapore?"

      "Non è a Chalons?"

      "Sì."

      "Gli stessi ordini che per i due bastimenti a vela."

      "Bene!"

      "Appena  comprata  questa  proprietà,  mi  fisserete  dei cambi di

      cavalli di dieci leghe tanto sulla strada del nord,  che su quella

      del mezzogiorno."

      "Vostra Eccellenza può fidarsi di me."

      Il  conte  fece  un segno di soddisfazione,  discese i gradini,  e

      saltò nella carrozza,  che trascinata al  trotto  dalla  magnifica

      pariglia non si fermò che alla porta del banchiere.

      Danglars  presiedeva  una  commissione  nominata  per una ferrovia

      allorché  vennero  ad  annunziargli  la  visita   del   conte   di

      Montecristo. La seduta del resto era quasi finita.

      Al nome del conte egli si alzò:

      "Signori"  disse  ai colleghi,  fra i quali molti onorevoli membri

      dell'una e dell'altra Camera, "perdonatemi se vi lascio così... Ma

      la casa Thomson e  French  di  Roma  m'invia  un  certo  conte  di

      Montecristo aprendogli a mio mezzo un credito illimitato. Questo è

      lo  scherzo  più  insolito che i miei corrispondenti all'estero si

      siano permessi con me.  Lo capirete bene,  sono preso e trattenuto

      dalla più grande curiosità.  Questa mattina sono passato da questo

      preteso conte.  Se fosse un vero  conte,  capirete  bene  che  non

      sarebbe  così  ricco.  Ebbene  il signore non riceveva.  Che ve ne

      pare?  Queste maniere che si permette il nostro  Montecristo,  non

      sono  più  adatte  a  qualche  principe  o  a qualche bella donna?

      D'altra parte la casa agli Champs-Elysées che è sua,  me  ne  sono

      informato,  dev'essere  costata  un  patrimonio...  Ma  un credito

      illimitato" riprese Danglars,  ridendo col  suo  villano  sorriso,

      "rende  molto  esigente  il  banchiere sul quale viene aperto.  Ho

      dunque fretta di vedere il nostro uomo.  Mi  credo  raggirato.  Ma

      quelli  laggiù non sanno con chi hanno a che fare: riderà bene chi

      riderà ultimo..."

      Terminando queste parole,  e dandogli un'enfasi che gli gonfiò  le

      narici,  lasciò  i suoi ospiti,  e passò in un salone bianco e oro

      che godeva gran fama nella Chaussée d'Antin. Là aveva ordinato che

      fosse introdotto il visitatore onde abbagliarlo al primo colpo.

      Il  conte  era  in  piedi,   e  stava  considerando  alcune  copie

      dell'Albano  e  del Fattore vendute per originali al banchiere,  e

      che,  per quanto fossero copie,  spiccavano molto sugli  arabeschi

      d'oro e di tutti i colori che adornavano il soffitto.

      Al  rumore che Danglars fece entrando il conte si volse.  Danglars

      fece un leggero cenno di testa,  indicando colla mano al conte  di

      sedersi  in  una  seggiola  di  legno dorata,  con cuscini di seta

      bianca broccata in oro.

      Il conte si sedette.

      "Ho l'onore di parlare al signor di Montecristo?"

      "Ed io" rispose il conte,  "al barone  Danglars,  cavaliere  della

      Legion d'Onore, membro della Camera dei deputati?"

      Montecristo  ridiceva  tutti  i  titoli  che  aveva  ritrovati sul

      biglietto da visita del barone.

      Danglars sentì la botta e si morse le labbra:

      "Scusatemi,  signore" disse,  "di non avervi dato subito il titolo

      sotto  il quale mi siete stato annunziato,  ma voi lo sapete,  noi

      viviamo sotto un governo democratico..."

      "Di modo che" rispose  Montecristo,  "conservando  l'abitudine  di

      farvi chiamare barone,  avete perduta quella di chiamare gli altri

      conte."

      "Ah,  non ci faccio caso neppure  per  me"  disse  negligentemente

      Danglars. "Mi hanno fatto barone e cavaliere della Legione d'Onore

      per servigi resi, ma..."

      "Ma voi avete abdicato ai titoli,  come in altro tempo hanno fatto

      Montmorency e La Fayette?  Questo è un  bell'esempio  da  seguire,

      signore."

      "Però   non  del  tutto"  riprese  Danglars  impacciato,   "per  i

      domestici, capirete..."

      "Sì,  voi  siete  barone  per  la  servitù,   e  cittadino  per  i

      giornalisti, e per i vostri committenti."

      Danglars  si  morse  le  labbra.  Vide che su quel terreno non era

      della forza di Montecristo, cercò dunque un terreno più familiare.

      "Signor  conte"  disse  inchinandosi,  "ho  ricevuto  una  lettera

      d'avviso della casa Thomson e French."

      "Ne sono contento,  signor barone.  Permettetemi di trattarvi come

      la vostra servitù;  è una cattiva abitudine presa nei paesi ove vi

      sono  ancora dei baroni,  proprio perché non se ne fanno di nuovi.

      Ne sono contento,  dicevo,  non avrò  bisogno  di  presentarmi  io

      stesso,  la  quale  cosa  è sempre imbarazzante.  Voi dunque avete

      ricevuto una lettera di credito?"

      "Sì" rispose Danglars,  "ma vi confesso che non ne ho bene  capito

      il senso."

      "Bah!"

      "Ed anzi avevo avuto l'onore di passare da voi per domandarvene la

      spiegazione."

      "Fatelo,   signore,   eccomi,   io   ascolto,   e  sono  pronto  a

      rispondervi."

      "Questa lettera" rispose Danglars, "credo d'averla con me."

      Si frugò nelle tasche.

      "Eccola, sì. Questa lettera apre al signor conte di Montecristo un

      credito illimitato sulla mia casa."

      "Ebbene, signor barone, che vi trovate d'oscuro?"

      "Niente, signore, fuorché la parola illimitato..."

      "Ebbene,  questa parola non è forse francese?  Capirete  che  sono

      anglosassoni che scrivono."

      "Oh via,  signore per la sintassi non c'è niente da ridire, ma non

      è così per la contabilità."

      "Perché,  la casa Thomson e French" chiese  Montecristo  coll'aria

      più  ingenua  che  avesse potuto assumere,  "non è a vostro avviso

      abbastanza sicura, signor barone? Diavolo, mi spiacerebbe,  perché

      ho depositati su di essa alcuni capitali."

      "Ah,  perfettamente  sicura" rispose Danglars con un sorriso quasi

      beffardo, "ma la parola illimitato, in materia di finanza, è tanto

      vaga che..."

      "Che è illimitata, non è vero" disse Montecristo.

      "Precisamente questo volevo dire.  Ciò che è vago è dubbio,  ed il

      saggio dice: astieniti dal dubbio."

      "Che è quanto dire" replicò Montecristo, "che se la casa Thomson e

      French  è  disposta  a  fare delle pazzie,  la casa Danglars non è

      disposta a seguirne l'esempio."

      "Che significa, signor conte?"

      "Sì, senza dubbio,  Thomson e French fanno gli affari senza cifre,

      ma  il  Signor  Danglars dà un limite alle sue;  è un uomo saggio,

      come si vantava poco fa."

      "Signore" disse orgogliosamente il banchiere,  "nessuno ha  ancora

      fatti conti nella mia cassa."

      "Allora"  disse  freddamente  Montecristo,  "sembra  che sarò io a

      cominciare."

      "E chi vi ha detto questo?"

      "Le spiegazioni che  voi  mi  chiedete,  e  che  somigliano  molto

      all'esitazione."

      Danglars  si  morse  le  labbra;  era  la seconda volta che veniva

      battuto da quest'uomo,  e questa volta sopra un terreno che era il

      suo.  La  sua  compitezza mordace non era che apparente e sfiorava

      l'impertinenza.  Montecristo al contrario sorrideva colla  maggior

      grazia  del  mondo,  e  quando voleva,  possedeva una cert'aria di

      leggerezza che gli dava molti vantaggi.

      "Finalmente,  signore" disse Danglars dopo un momento di silenzio,

      "cercherò di farmi intendere,  pregandovi di fissare voi stesso la

      somma che contate riscuotere da me."

      "Ma,  signore" rispose Montecristo,  risoluto  a  non  perdere  un

      pollice  di  terreno nella discussione,  "se ho chiesto un credito

      illimitato su voi,  fu precisamente perché  non  sapevo  di  quale

      somma potevo aver bisogno."

      Il  banchiere credette finalmente giunto il momento di prendere il

      sopravvento;  si rovesciò sul suo seggio,  e con un grossolano  ed

      orgoglioso sorriso:

      "Oh,  signore,  non  abbiate alcun timore nel chiedere...  Potrete

      convincervi che le cifre della casa Danglars, per quanto limitate,

      possono soddisfare  le  più  grandi  esigenze,  e  potreste  anche

      chiedere un milione..."

      "Sarebbe a dire?" disse Montecristo.

      "Dico un milione" disse Danglars colla sostenutezza dello stolido.

      "E  a  che  mi servirebbe un milione?" disse il conte.  "Buon Dio,

      signore, se non mi fosse abbisognato che un milione,  non mi sarei

      fatto aprire un credito su voi per una simile miseria. Un milione!

      Ma  ho  sempre  un milione nel mio portafogli,  nel mio scrigno da

      viaggio."

      E Montecristo cavò  dal  piccolo  taccuino,  entro  cui  teneva  i

      biglietti da visita, due assegni di cinquecentomila franchi l'uno,

      pagabili  dal  tesoro  al  portatore.  Bisognava accoppare,  e non

      pungere un uomo come Danglars.  Il colpo  di  mazza  fece  il  suo

      effetto: il banchiere vacillò,  ed ebbe la vertigine,  spalancò su

      Montecristo due occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò a dismisura.

      "Vediamo,  confessatemi" disse Montecristo,  "che diffidate  della

      casa Thomson e French.  Mio Dio,  la cosa è semplicissima. Io però

      ho previsto il caso,  e sebbene estraneo agli affari ho  preso  le

      mie cautele.  Ecco dunque due altre lettere simili a quella che vi

      fu scritta: una è della casa Arstein e Eskeles di Vienna sopra  il

      signor  barone  Rothschild,  l'altra è della casa Baring di Londra

      sul signor Laffitte. Dite una parola,  signore,  ed io vi toglierò

      qualunque  preoccupazione,  presentandomi  all'una  o all'altra di

      queste due case."

      Era finita: Danglars fu vinto.  Egli aprì con un visibile  tremore

      la  lettera  di  Vienna  e  quella  di  Londra  che  gli  venivano

      presentate  sulla   punta   delle   dita   dal   conte,   verificò

      l'autenticità delle firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato

      un insulto per Montecristo, senza la confusione del banchiere.

      "Oh,  signore,  ecco tre firme che valgono bene dei milioni" disse

      Danglars  alzandosi,   come  per  salutare  la  potenza   dell'oro

      personificata nell'uomo che aveva davanti. "Tre crediti illimitati

      sulle nostre tre prime case!  Perdonatemi, signor conte, ma mentre

      cesso  di   essere   diffidente,   mi   sarà   permesso   d'essere

      meravigliato."

      "Oh,  non  sarà  già  una  casa  come  la  vostra,  quella  che si

      meraviglia di ciò!" disse Montecristo con tutta cortesia.  "Dunque

      mi manderete un po' di denaro, non è vero?"

      "Parlate, signor conte, sono ai vostri ordini."

      "Ebbene,  ora  che  c'intendiamo...  Perché già c'intendiamo,  non

      vero?"

      Danglars fece un segno affermativo colla testa.

      "E non avrete più diffidenza?" continuò Montecristo.

      "Oh, non ne ho mai avuta" disse il banchiere.

      "No, desideravate una prova, ecco tutto.  Ebbene" ripeté il conte,

      "ora  che  c'intendiamo,  ora che non avete più alcuna diffidenza,

      fissiamo, se volete,  una somma per il primo anno...  sei milioni,

      per esempio."

      "Sei milioni, sia!" disse Danglars soffocato.

      "Se  mi  occorrerà  di  più"  disse Montecristo con trascuratezza,