"Ecco" disse, "dei cani che abbaiano e mordono nello stesso tempo:
queste sono per i primi due che avessero brama del vostro
diamante, compare Caderousse."
Caderousse e sua moglie si scambiarono una cupa occhiata: sembrava
che entrambi avessero avuto contemporaneamente qualche terribile
pensiero.
"Allora, buon viaggio" disse Caderousse.
"Grazie" rispose il gioielliere.
E preso il bastone che aveva posato contro un vecchio baule, uscì.
Nell'atto che aprì lo porta entrò un colpo di vento, che per poco
non spense la lucerna.
"Oh" disse, "va a farsi un bel tempo... Ed io ho due leghe da
camminare con questo tempo!"
Restate disse Caderousse. "Dormirete qui.
"Sì, restate disse Carconta con voce mal ferma. "Avremo per voi
tutte le cure."
"No, bisogna ch'io vada a dormire a Beaucaire. Addio."
Caderousse andò lentamente fino al limitare della porta.
"Non si distingue né cielo né terra" disse il gioielliere già
fuori di casa. "Debbo prendere a destra o a sinistra?"
"A destra" disse Caderousse. "Non v'è da sbagliare, la strada è
fiancheggiata d'alberi da ambe le parti."
"Va bene, ci sono" disse la voce, quasi estinta, da lontano.
"Chiudi dunque la porta" disse Carconta. "Non mi piacciono le
porte aperte quando tuona.
"E quando c'è del danaro in casa, non è vero?" disse Caderousse
dando un doppio giro alla serratura.
Egli rientrò, andò all'armadio, ne cavò il sacchetto ed il
portafogli, ed entrambi si misero a contare per la terza volta
l'oro ed i biglietti. Io non ho mai veduto una espressione simile
a quella di quei due visi, di cui una debole lampada rischiarava
la cupidigia. La donna particolarmente era schifosa: il tremito
febbrile che abitualmente l'animava, s'era raddoppiato. Il suo
viso da pallido era divenuto livido; gli occhi incavati
fiammeggiavano.
"Perché dunque" domandò, "gli hai offerto di dormire qui?"
"Ma" rispose Caderousse con un tremito, "perché... perché non
avesse la pena di ritornare a Beaucaire.'
"Ah" disse la donna con un'espressione impossibile a dirsi.
"Credevo fosse per un altro fine."
"Donna, donna!" gridò Caderousse. "Perché hai simili idee? e
perché, avendole, non le serbi tutte per te?"
"E' lo stesso" disse Carconta dopo un momento di silenzio. "Tu non
sei un uomo."
"Come sarebbe a dire?" disse Caderousse.
"Se tu fossi stato un uomo, non sarebbe uscito di qui.
"Donna!"
"Oppure non arriverebbe a Beaucaire."
"Donna!"
"La strada fa un gomito, è obbligato a seguire la strada, mentre
lungo il canale s'accorcia."
"Donna! tu offendi il buon Dio... Tieni, ascolta..."
Infatti s'intese uno spaventoso tuono, nello stesso tempo un lampo
rossastro infiammò tutta la scala, mentre il fulmine, decrescendo
lentamente, sembrava allontanarsi di mala voglia dalla casa
maledetta.
"Gesù!" disse Carconta segnandosi.
Nello stesso tempo, ed in mezzo a quel silenzio di terrore che
ordinariamente succede allo scroscio di un fulmine, s'intese
battere alla porta.
Caderousse e sua moglie fremettero, e si guardarono spaventati.
"Chi va là?" gridò Caderousse alzandosi, e riunendo in un sol
monte l'oro e i biglietti ch'erano sparsi per la tavola, e che
coprì con le mani.
"Sono io" disse una voce.
"E chi siete?"
"Eh, per Bacco! Giovanni il gioielliere!"
"Ebbene, che dici ora?" riprese Carconta con un terribile sorriso.
"Offendevo il cielo? Ecco che il cielo pietoso ce lo rimanda!"
Caderousse ricadde pallido ed anelante sulla sedia. Carconta, al
contrario si alzò, e andò con passo fermo ad aprire la porta.
"Entrate dunque, caro signor Giovanni."
"In fede mia" disse il gioielliere bagnato dalla pioggia, "pare
che il diavolo non voglia che io ritorni a Beaucaire questa sera.
Le più corte pazzie sono le migliori, mio caro Caderousse: mi
avete offerto ospitalità, l'accetto, e vengo a dormire da voi."
Caderousse balbettò qualche parola, asciugandosi il sudore che gli
grondava dalla fronte. Carconta rinchiuse la porta a doppio giro
di chiave, appena fu entrato il gioielliere."
Capitolo 44.
PIOGGIA DI SANGUE.
"Il gioielliere entrando girò uno sguardo investigatore intorno a
sé; ma nulla poteva fargli nascere sospetti, se non ne aveva, e
nulla confermarglieli quando ne avesse avuti. Caderousse copriva
sempre con ambe le mani i biglietti e l'oro.
Carconta sorrideva al suo ospite più graziosamente che poteva.
"Ah, ah" disse il gioielliere, "sembra che abbiate paura di non
aver ricevuto il conto vostro, che tornavate a contare il tesoro
dopo la mia partenza?"
"No" disse Caderousse, "ma l'avvenimento che ce ne mette in
possesso è così inatteso, che non vi possiamo ancora credere, e
quando non abbiamo la prova materiale sotto gli occhi, ci pare
sempre di sognare."
Il gioielliere sorrise.
"Avete viaggiatori nel vostro albergo?" domandò.
"No" rispose Caderousse, "non diamo da dormire; siamo troppo
vicini alla città, e nessuno si ferma."
"Allora vi procuro un grandissimo incomodo?"
"Incomodarci voi! Mio caro signore" disse con grazia Carconta,
"niente affatto; ve lo giuro."
"Vediamo, dove mi metterete?"
"Nella camera in alto.
"Ma non è la vostra camera?"
"Oh, non importa: abbiamo un secondo letto nella camera di fianco
a questa.
Caderousse guardò con meraviglia la moglie. Il gioielliere
cantarellò una canzonetta mentre si riscaldava il dorso ad una
fascina che Carconta aveva accesa nel caminetto per il suo ospite,
intanto apparecchiava ad un angolo della tavola, su cui aveva
messa una salvietta, i magri avanzi di un pranzo a cui unì due o
tre uova fresche.
Caderousse aveva nuovamente chiusi i biglietti nel portafogli,
l'oro nel sacchetto, ed il tutto nell'armadio. Egli passeggiava in
lungo ed in largo, cupo e meditabondo, alzando la testa sul
gioielliere, che stava fumando davanti al caminetto, e che si
asciugava da un lato, e poi dall'altro.
''Ecco qua" disse Carconta mettendo una bottiglia sulla tavola.
"Quando vorrete cenare, tutto è pronto." E voi? domandò Giovanni.
"Io non cenerò" rispose Caderousse.
"Abbiamo pranzato tardissimo" si affrettò a dire Carconta.
"Cenerò dunque solo?" disse il gioielliere.
"Vi serviremo" disse Carconta, con una premura che non le era
naturale, neppure cogli ospiti del suo paese.
Ogni tanto Caderousse le lanciava degli sguardi rapidi come il
baleno.
L'uragano continuava.
"Sentite? sentite?" diceva Carconta. "Avete fatto molto bene, in
fede mia, a ritornare."
"Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante la mia
cena io ritorni a mettermi in viaggio."
"Spira maestrale" disse Caderousse scuotendo la testa. "Avremo
questo tempo fino a domani."
E dicendo ciò, mandò un sospiro.
"Accidenti" disse il gioielliere mettendosi a tavola. "Tanto
peggio per quelli che sono fuori."
"Sì" soggiunse Carconta, "passeranno una cattiva notte."
Il gioielliere cominciò la cena, e la Carconta continuò ad avere
per lui tutte le piccole premure di un'attività albergatrice, essa
d'ordinario così dispettosa e strana era divenuta il modello della
pulizia e delle premure. Se il gioielliere l'avesse conosciuta
prima, si sarebbe certamente meravigliato di un così grande
mutamento, e ciò non avrebbe mancato di ispirargli qualche
sospetto. In quanto a Caderousse, non diceva una parola,
continuava ad andare su e giù per la stanza, e sembrava perfino
non osasse guardare il suo ospite.
Quando la cena fu terminata, Caderousse andò egli stesso ad aprire
la porta.
"Credo che l'uragano si calmi..." disse.
Ma nello stesso momento, come per dargli una smentita, un
terribile scroscio di tuono fece tremare la casa, e l'impeto del
vento pervenne a spegnere la lucerna.
Caderousse rinchiuse la porta; e sua moglie accese una candela al
fuoco che stava estinguendosi.
"Prendete" disse lei al gioielliere. "Dovete essere stanco... Ho
messo lenzuola di bucato al letto, salite per riposarvi, e dormite
bene."
Giovanni si fermò ancora un momento per assicurarsi se il
temporale non si calmasse, e quando fu certo che il tuono e la
pioggia non facevano che aumentare, augurò la buona notte ai suoi
albergatori e salì la scala.
Egli passava sopra la mia testa, e sentivo ciascuno scalino
scricchiolare sotto i suoi passi.
Carconta lo seguì con occhio avido, mentre Caderousse gli voltò le
spalle, e non guardò neppure da quella parte.
Tutti questi particolari, che mi sono poi ritornati in memoria,
non mi fecero allora alcuna impressione mentre avvenivano sotto i
miei occhi, e non c'era nulla di straordinario in ciò che
accadeva, eccettuata la storia del diamante che mi sembrava un
poco inverosimile.
Così, essendo spossato dalla fatica, e contando di approfittare
della prima pausa della tempesta, decisi di dormire lì alcune ore,
e di allontanarmi nel mezzo della notte.
Sentivo nella camera superiore che anche il gioielliere faceva
tutti i preparativi per passare la notte il meglio che potesse.
Ben presto il letto scricchiolò sotto il suo peso; era andato a
riposare. Sentivo i miei occhi chiudersi mio malgrado, e siccome
non avevo alcun sospetto, così mi abbandonai al sonno, però
lanciando un ultimo sguardo nell'interno della cucina.
Caderousse era seduto di fianco ad una lunga tavola, su una di
quelle panche di legno in uso negli alberghi dei villaggi. Mi
voltava le spalle, e non potevo vederne i lineamenti, teneva il
viso sepolto nelle mani.
La Carconta lo guardò per qualche tempo, poi si strinse nelle
spalle e andò a sedersi vicino a lui. La fiamma morente si appiccò
ad un avanzo di legno dimenticato, una luce un po' più vivace
illuminò l'interno.
Carconta teneva gli occhi fissi sul marito, e siccome questi
rimaneva sempre nella stessa posizione, la vidi stendere verso di
lui la scarna mano, e toccarlo in fronte...
Caderousse fremette.
Mi sembrò che la donna movesse le labbra, ma sia che parlasse
troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi dal sonno, il
suono della sua voce non giunse fino a me.
Non ci vedevo che attraverso una nebbia; era quella incertezza del
sonno, nella quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i
miei occhi si chiusero, e persi conoscenza.
Ero nel più profondo del sonno, quando fui svegliato da un colpo
di pistola seguito da un grido terribile.
Udii alcuni passi barcollanti nella stanza di sopra, poi una massa
inerte cadde dalle scale.
Non ero ancora ben padrone di me. Intesi dei gemiti, poi delle
grida soffocate come per una lotta.
Un ultimo grido, che terminò in un gemito prolungato, venne a
togliermi del tutto dal mio letargo.
Mi sollevai sopra un braccio, aprii gli occhi, che non videro
niente nelle tenebre, e portai la mano alla fronte, sulla quale mi
pareva che cadesse dalle fenditure della scala una pioggia tiepida
ed abbondante.
Il più profondo silenzio era succeduto a questo spaventoso rumore.
Intesi il passo di un uomo che camminava di sopra; questi passi
fecero scricchiolare la scala. Poi l'uomo discese nella stanza, si
avvicinò al caminetto, ed accese una candela.
Era Caderousse; aveva il viso pallido, e la camicia insanguinata.
Accesa la candela risalì rapidamente la scala, e intesi di nuovo i
suoi passi rapidi e tremolanti.
Un momento dopo tornò a scendere; teneva in una mano l'astuccio, e
si assicurò che vi fosse ancora il diamante. Cercò un momento in
quale delle sue tasche doveva metterlo; quindi senza dubbio, non
ritenendo la tasca un nascondiglio abbastanza sicuro, lo avvolse
nel fazzoletto rosso, che si legò al collo. Poi corse all'armadio,
ne cavò i biglietti e l'oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi
calzoni, l'altro nella tasca del suo abito, prese due o tre
camicie, si lanciò verso la porta, e sparì nell'oscurità.
Allora tutto fu chiaro e manifesto; mi figurai l'accaduto, come
fossi stato il colpevole.
Mi sembrò sentire dei gemiti: il gioielliere poteva non essere
ancora morto; forse potevo riparare, apportandogli soccorso, una
parte di quel male che non avevo fatto, ma che avevo lasciato
fare.
Appoggiai le spalle contro l'assito di quella specie di tamburo
che mi separava dalla sala inferiore, l'assito cedette ed io mi
ritrovai in casa.
Corsi a prendere la candela, e mi lanciai verso la scala un corpo
la sbarrava di traverso... era il cadavere della Carconta. Il
colpo di pistola che avevo udito era stato scaricato su lei: aveva
la gola trapassata da parte a parte, e vomitava sangue dalla
bocca.
Scavalcai il suo corpo e passai. La camera offriva l'aspetto del
più spaventoso disordine. Due o tre mobili erano stati rovesciati;
il lenzuolo, al quale si era aggrappato il disgraziato
gioielliere, era steso sul pavimento; egli stesso giaceva a terra,
colla testa appoggiata contro il muro in un mare di sangue, che
scaturiva da tre larghe ferite al petto. Nella quarta era rimasto
un lungo coltello da cucina di cui non si vedeva che il manico.
Inciampai nella seconda pistola, che non aveva sparato perché
forse la polvere era bagnata.
Mi avvicinai al gioielliere, effettivamente non era morto: aprì
gli occhi stravolti, giunse a fissarli un momento su me, agitò le
labbra come se avesse voluto parlare, e spirò.
Questo truce spettacolo mi aveva reso quasi insensato. Dal momento
che non potevo più arrecare soccorso ad alcuno, non provai che un
solo bisogno, cioè di fuggire. Mi precipitai dalla scala,
cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un grido di terrore.
Nella sala terrena c'erano cinque o sei doganieri e due o tre
gendarmi. Un intero picchetto d'armati. S'impadronirono di me e
non tentai nemmeno di fare resistenza, non ero più padrone dei
miei nervi. Tentai di parlare e non emisi che qualche grido
inarticolato; vidi che i doganieri ed i gendarmi mi mostravano a
dito, volsi gli occhi su me stesso, e m'accorsi allora che ero
tutto pieno di sangue.
Quella pioggia tiepida che avevo sentito cadermi sopra dalle
fenditure dei gradini della scala, era il sangue di Carconta.
Mostrai col dito il luogo dov'ero nascosto.
"Che vuoi dire?" domandò un gendarme.
Un doganiere andò a vedere.
"Vuol dire ch'è passato di là" rispose.
E mostrò l'apertura per la quale effettivamente ero passato.
Allora capii che venivo preso per l'assassino. Ricuperai la voce,
e ritrovai la forza; mi sciolsi dalle mani dei due uomini che mi
tenevano gridando:
"Non sono stato io! non sono stato io!"
Due gendarmi mi presero di mira colle carabine.
"Se fai un movimento" mi dissero, "sei morto!"
"Ma" gridai, "vi ripeto che non sono stato io."
"Racconterai la tua storiella ai giudici di Nimes" dissero.
''Intanto vieni con noi; e se vuoi un buon consiglio è di non fare
resistenza."
Questa non era la mia intenzione: ero spossato dalla sorpresa e
dal terrore. Mi furono messe le manette, fui attaccato alla coda
di un cavallo e fui condotto a Nimes.
Ero stato seguito da un doganiere che mi aveva perduto di vista
nelle vicinanze della casa, e pensando che vi avrei passata tutta
la notte, andò ad avvisare i compagni, che giunsero in tempo per
sentire di lontano il colpo di pistola, e per cogliere me in mezzo
a tante prove di colpevolezza.
Capii quanto mi sarebbe costato far conoscere la mia innocenza.
Non avevo che un sol punto di appoggio; e la prima domanda che
feci al giudice istruttore fu una preghiera: che fosse ricercato
un certo abate Busoni, in quel giorno fermatosi all'albergo del
Ponte di Gard.
Se Caderousse aveva inventata una storia, se quest'abate non
esisteva, ero evidentemente perduto, a meno che non fosse
arrestato Caderousse e confessasse tutto.
Passarono due mesi, durante i quali, debbo dirlo a lode dei miei
giudici, furono fatte le possibili ricerche per ritrovare l'abate.
Avevo perduto ogni speranza; Caderousse non era stato arrestato.
Ero vicino ad essere giudicato nella prima seduta, allorché il
giorno 8 settembre, cioè tre mesi e cinque giorni dopo
l'avvenimento, l'abate Busoni, sul quale non speravo più, si
presentò alle carceri, dicendo che sapeva che un prigioniero
desiderava parlargli. Aveva saputo, diceva, la cosa a Marsiglia, e
si affrettava ad accorrere.
Capirete con quale ardore lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di
cui ero stato testimonio: cominciai con esitazione la storia del
diamante. Contro ogni mia aspettativa, era vera punto per punto, e
contro ogni mia aspettativa ancora egli prestò piena fede a tutto
ciò che gli dissi.
Allora convinto dalla sua dolce carità, ravvisando in lui una
profonda conoscenza dei costumi del mio paese, e pensando che la
parola del perdono del solo delitto che avevo commesso nella mia
vita, poteva forse uscire dalle sue labbra tanto caritatevoli, gli
raccontai, sotto il suggello della confessione, l'avventura
d'Auteuil in tutti i suoi particolari.
La confessione di questo primo assassinio, che niente mi
costringeva a confessare, gli provò ch'io non avevo commesso il
secondo: mi lasciò, dicendomi di sperare e promettendomi di fare
ciò che sarebbe stato in suo potere per convincere i giudici della
mia innocenza.
Ebbi infatti la prova ch'egli si era occupato di me, quando vidi
addolcirsi i trattamenti che ricevevo nella mia prigione, e seppi
che veniva differito il giudizio alle sedute che sarebbero venute.
In quest'intervallo la Provvidenza volle che Caderousse fosse
arrestato all'estero e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto,
aggravando la moglie della premeditazione, e particolarmente della
istigazione, e fu condannato alla galera a vita. Io fui messo in
libertà."
"E fu allora" disse Montecristo, "che vi presentaste a me colla
lettera dell'abate Busoni."
"Sì, Eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interesse.
"Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà" mi disse. "Se voi
uscite di qui, lasciatelo."
"Ma, padre" gli chiesi, "come volete che faccia a vivere ed a far
vivere la mia povera cognata?"
"Uno dei miei penitenti" disse, "mi ha in molta stima, e mi ha
incaricato di trovargli un uomo di fiducia. Volete essere
quest'uomo? Vi raccomanderò a lui!
"Oh! padre" gridai, "quanta bontà!"
"Ma mi promettete che non avrò mai a pentirmene?"
Stesi la mano per fare il mio giuramento.
"E' inutile" diss'egli, "conosco ed amo i corsi: ecco la mia
raccomandazione.
E scrisse le poche righe che vi portai, e per le quali Vostra
Eccellenza ebbe la bontà di prendermi al suo servizio. Ora domando
con orgoglio a Vostra Eccellenza: ha mai dovuto lamentarsi di me?"
"No" rispose il conte, "e lo dico con piacere, siete un buon
servitore quantunque manchiate di confidenza."
"Io, signor conte?"
"Sì, voi. Come, avete una cognata ed un figlio adottivo, e non mi
avete mai parlato di loro?"
"Ahimè, Eccellenza, questo è quanto mi rimane da dirvi, ed è la
parte più triste della mia vita...
Partii per la Corsica: avevo fretta, come potrete bene immaginarvi
d'andare a consolare quella ch'io chiamavo mia sorella, ma quando
giunsi a Rogliano trovai la casa in lutto. Era accaduta una cosa
orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria!
La mia povera cognata, secondo quanto le avevo consigliato, non
cedette più alle pretese di Benedetto, che ad ogni momento voleva
denaro. Una mattina egli la minacciò, e poi sparì per tutto il
giorno. Lei pianse. La povera Assunta aveva per il miserabile una
tenerezza materna. Giunse la sera, e lo aspettò senza andare a
letto. Alle undici entrò con due dei suoi amici, compagni di tutte
le sue follie. Lei gli stese le braccia, ma questi s'impadronirono
di lei, ed uno dei tre (io temo sia stato quel diabolico ragazzo)
gridò:
"Torturiamola, bisognerà bene che confessi dove tiene nascosto il
suo denaro.
Il vicino Basilio era a Bastia, e sua moglie soltanto era rimasta
in casa. Nessuno, eccettuata lei, poteva vedere o sentire ciò che
accadeva in casa mia. Due di loro tenevano ferma la povera
Assunta, che, non potendo credere alla possibilità di un simile
eccesso, sorrideva ai carnefici, il terzo andò a barricare la
porta e le finestre. Quando tornò, tutti e tre riuniti soffocando
le grida che il terrore le strappava, avvicinarono i piedi di
Assunta ad un braciere. Ma nella lotta il fuoco si appiccò alle
vesti: lasciarono allora la poveretta per non essere bruciati
anch'essi. Fra le fiamme ella corse alla porta, ma era chiusa, si
slanciò verso le finestre ma erano barricate. Allora la vicina
intese delle grida orribili, era Assunta che chiamava soccorso.
Ben presto la sua voce fu soffocata, e le grida divennero gemiti.
L'indomani, dopo una notte di terrore e d'angoscia quando la
moglie di Basilio osò uscire di casa, fece aprire la porta dal
giudice: fu ritrovata la povera Assunta per metà bruciata, ma che
respirava ancora, gli armadi forzati, ed il piccolo tesoro
sparito. Benedetto aveva lasciato Rogliano per non tornarvi più, e
da quel giorno non l'ho più veduto, né ho sentito parlare di lui.
Dopo queste tristi notizie, venni da Vostra Eccellenza. Non potevo
più parlarvi di Benedetto, perché era sparito, né di Assunta
perché era morta."
"E che avete pensato di ciò?" domandò Montecristo.
"Che quello era stato il castigo del delitto che io avevo
commesso" rispose Bertuccio. "Ah, questi Villefort, sono una razza
maledetta!"
"Lo credo anch'io" mormorò il conte con accento lugubre.
"Ed ora" rispose Bertuccio, "Vostra Eccellenza comprenderà, che
questa casa che da allora non avevo più veduta, che questo
giardino dove mi sono ritrovato d'improvviso, che questo luogo
dove ho ammazzato un uomo, devono avermi procurato quelle forti
emozioni delle quali ha voluto conoscere l'origine. Inoltre non
sono certo che davanti a me, là ai miei piedi, Villefort non sia
stato sepolto nella fossa ch'egli aveva scavata per suo figlio."
"Infatti tutto è possibile" disse Montecristo, levandosi dalla
panca su cui era seduto, "ed anche" soggiunse a bassa voce, "che
il procuratore del re non sia morto. L'abate Busoni ha fatto bene
ad indirizzarvi a me. E voi avete fatto bene a raccontarmi la
vostra storia; perché non avrò più sospetti a vostro riguardo. In
quanto a codesto malchiamato Benedetto, non avete mai cercato di
sapere ciò che ne sia avvenuto?"
"No, mai. Se avessi saputo dov'era, invece d'andare da lui, sarei
fuggito come davanti ad un mostro. No, fortunatamente, non ne ho
inteso mai parlare da chicchessia; e spero che sia morto."
"Non lo sperate, Bertuccio" disse il conte. "I cattivi non muoiono
così, sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per farne gli
strumenti della sua giustizia."
"Sia" disse Bertuccio. "Tutto ciò però che io domando al cielo è
che non lo abbia mai a rivedere. Ora" continuò l'intendente
abbassando la testa, "voi sapete tutto, signor conte, siete il mio
giudice quaggiù... Non vorrete dirmi qualche parola di
consolazione?"
"Infatti avete ragione, ed io posso dirvi ciò che vi direbbe
l'abate Busoni. Colui che avete colpito, meritava un castigo per
ciò che aveva fatto a voi, e fors'anche a qualche altro.
Benedetto, se vive, servirà a qualche giustizia divina, poi a sua
volta sarà punito. In quanto a voi, non avete più rimproveri da
farvi. Chiedetevi piuttosto perché, avendo salvato questo bimbo
dalla morte, non lo rendeste a sua madre: qui sta il delitto,
Bertuccio."
"Sì, signore, quello è il mio delitto, il vero delitto, perché in
questo, sono stato un vile. Una volta richiamato alla vita il
bambino, non avevo che una sola cosa da fare, voi lo diceste:
farlo sapere a sua madre. Ma mi necessitava fare delle ricerche,
attirare l'attenzione, e forse scoprirmi. Non volli morire, ero
attaccato alla vita per il sostentamento di mia cognata, per
l'amore di me stesso, innato in ciascuno, per rimaner sano e
libero nelle mie vendette, infine ero attaccato alla vita anche
per l'amore stesso della vita. Oh, non sono un brav'uomo come lo
era mio fratello!"
E Bertuccio si nascose il viso fra le mani.
Montecristo fisso su lui un lungo ed indefinito sguardo.
Dopo un momento di silenzio reso ancora più solenne dall'ora e dal
luogo:
"Per terminare degnamente questa conversazione, che sarà l'ultima
su tali avventure, Bertuccio" disse il conte, "ritenete bene le
mie parole, le ho spesso intese pronunciare dallo stesso abate
Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedi: il tempo e il silenzio.
Ora, Bertuccio, lasciatemi passeggiare un momento in questo
giardino. Ciò che rammenta a voi un'emozione ripugnante, come
attore di quell'orribile scena, darà a me sensazioni quasi
piacevoli, come raddoppiassero il valore di questa proprietà. Gli
alberi non piacciono se non perché danno l'ombra, e l'ombra stessa
non piace se non perché è piena di sogni e di visioni. Ecco che
compro un giardino, credendo d'acquistare un semplice recinto
circondato da muri, e d'improvviso si cambia in un giardino pieno
di fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi, e non
ho mai inteso dire che i morti abbiano in seimila anni fatto tanto
male, quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque,
Bertuccio, e andate a dormire in pace."
Bertuccio s'inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò
mandando un sospiro.
Montecristo rimase solo; e facendo quattro passi in avanti,
mormorò:
"Qui, vicino a questa pianta, la fossa in cui fu deposto il
bambino; laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino:
in quest'angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto.
Credo di non aver bisogno di descrivere tutto ciò nel mio
taccuino, perché ecco qua, davanti ai miei occhi, intorno a me,
sotto i miei piedi, il piano in rilievo, il piano vivente."
Ed il conte, dopo un ultimo giro in quel giardino, andò a
raggiungere la sua carrozza. Bertuccio che lo vide assorto,
s'assise presso il cocchiere. La carrozza riprese la strada di
Parigi.
La sera stessa, al suo ritorno nella casa degli Champs-Elysées, il
conte di Montecristo visitò tutta l'abitazione come avrebbe potuto
fare un uomo a cui fosse stata famigliare da molti anni.
Alì lo accompagnava in questa visita notturna. Il conte dette a
Bertuccio molti ordini per l'abbellimento e la nuova distribuzione
degli appartamenti. Poi cavando l'orologio disse all'attento moro:
"Sono le undici e mezzo. Haydée non può tardare ad arrivare. Sono
state avvertite le cameriere francesi?"
Alì stese la mano verso l'appartamento destinato alla bella greca
(talmente isolato, che nascondendo la porta dietro la tappezzeria,
la casa poteva essere visitata per intero, senza che alcuno
potesse sospettare esservi un salotto e due camere abitate),
mostrò il numero tre con la mano sinistra, e su questa mano,
appoggiò la testa, e chiuse gli occhi come dormiente.
"Ah" fece Montecristo, abituato a questo linguaggio, "tre
aspettano nella camera da letto, non è così?"
"Sì" fece Alì, agitando la testa.
"La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire"
continuò Montecristo, "che nessuno la faccia parlare. Le cameriere
francesi devono soltanto salutare la loro nuova padrona e
ritirarsi e voi sorveglierete perché la cameriera greca non abbia
comunicazione colle francesi."
Alì s'inchinò.
Ben presto fu inteso chiamare il portinaio; il cancello s'aprì una
carrozza percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata. Il
conte scese: la porticina era già aperta, egli stese la mano ad
una giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che
la copriva tutta, fin dalla testa.
Allora, preceduta da Alì che portava una torcia dal profumo di
rose, la giovane fu condotta al suo appartamento, quindi il conte
si ritirò nel padiglione che si era riservato.
Mezz'ora dopo mezzanotte tutti i lumi erano spenti nella casa, e
si sarebbe potuto credere che tutti dormissero.
Capitolo 45.
IL CREDITO ILLIMITATO.
L'indomani verso le due dopo mezzogiorno, un elegante calesse
tirato da due magnifici cavalli inglesi, si fermò davanti alla
porta di Montecristo. Un uomo vestito con un abito turchino, con
bottoni di seta dello stesso colore un corpetto bianco sormontato
da una enorme catena d'oro, pantaloni neri, capelli neri che
scendevano sulle sopracciglia e non parevano naturali, tanto erano
poco in armonia colle rughe sparse; un uomo infine di cinquanta-
cinquantacinque anni, e che cercava di dimostrarne quaranta dal
volto, sporse la testa dal finestrino della carrozza, che aveva
dipinta sullo sportello una corona di barone, e mandò il groom a
domandare al portinaio se il conte di Montecristo era in casa.
Mentre aspettava, quest'uomo osservava con una attenzione minuta,
quasi impertinente, l'esterno della casa, quanto poteva
distinguersi dal giardino, e la livrea di quei domestici che si
potevano vedere andare e venire. L'occhio di quest'uomo era
vivace, ma piuttosto furbo che spiritoso. Le labbra erano così
sottili che, invece di sporgere in fuori, si ripiegavano in
dentro.
La larghezza e la protuberanza degli zigomi, segno infallibile
d'astuzia, la depressione della fronte, il rigonfiamento
dell'occipite che sorpassava un paio d'orecchie non certo
aristocratiche, contribuivano a dare un aspetto spiacevole alla
fisonomia di questo personaggio, che molto si raccomandava agli
occhi del volgo per i suoi magnifici cavalli, per l'enorme
diamante che portava alla camicia, e per il nastro rosso da un
capo all'altro della bottoniera dell'abito.
Il groom bussò all'invetriata del portinaio, domandando:
"Non è qui che abita il conte di Montecristo?"
"E' qui che abita Sua Eccellenza" rispose il portinaio "ma..."
E consultò con uno sguardo Alì, che fece un segno negativo.
"Ma?" domandò il groom.
"Sua Eccellenza non può ricevere" rispose il portinaio.
"In questo caso, ecco il biglietto da visita del mio padrone, il
barone Danglars... Lo consegnerete al conte di Montecristo e gli
direte che andando alla Camera, il mio padrone è passato di qui
per aver l'onore di vederlo."
"Io non parlo a Sua Eccellenza" rispose il portinaio, "però il
cameriere farà l'ambasciata."
Il groom ritornò alla carrozza.
"Ebbene?" domandò Danglars.
Il ragazzo, abbastanza vergognoso della lezione ricevuta, ripeté
al padrone la risposta del portinaio.
"Oh" fece questi, "è dunque un principe questo signore che viene
detto Eccellenza, e a cui solo il cameriere ha il diritto di
parlare? Non importa, poiché ha un credito su me, bisogna bene che
lo veda, quando avrà bisogno di denaro."
E Danglars si ritrasse nel fondo della carrozza, gridando al
cocchiere, in modo che si sarebbe sentito dall'altra parte della
strada:
"Alla Camera dei deputati!"
Da una persiana del padiglione, Montecristo avvisato in tempo,
aveva visto il barone, e lo aveva osservato, coll'aiuto di un
eccellente occhialino con non minore attenzione di quella che
Danglars aveva messa ad analizzare la casa, il giardino, e le
livree.
"Davvero" disse con un gesto di disgusto e facendo rientrare le
lenti dell'occhialino nel loro manico d'avorio, "davvero
quest'uomo è una laida creatura. Come mai, dalla prima volta che
lo vedono, non riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata,
l'avvoltoio dal cranio rotondeggiante, lo sparviero dal becco
acuto?"
"Alì" gridò, poi batté un colpo sul campanello di rame.
Alì comparve.
"Chiamate Bertuccio" disse il conte.
Nello stesso momento entrò Bertuccio.
"Forse Vostra Eccellenza mi faceva chiamare?" disse l'intendente.
"Sì, signore" disse il conte. "Avete veduti i cavalli che si sono
fermati davanti alla mia porta?"
"Certamente, Eccellenza, sono molto belli."
"E com'è dunque" disse Montecristo aggrottando il sopracciglio,
"che mentre ho ordinato i due più bei cavalli che fossero a
Parigi, vi siano ancora nelle scuderie dei cavalli più belli dei
miei?"
All'aggrottarsi delle sopracciglia, ed al tono severo di quella
voce, Alì abbassò la testa ed impallidì.
"Non è colpa tua, buon Alì" disse in arabo il conte con una
dolcezza che non si sarebbe sospettata né nella sua voce, né sul
suo viso. "Tu non t'intendi di cavalli inglesi."
La serenità ricomparve sui lineamenti d'Alì.
"Signor conte" disse Bertuccio, "i cavalli di cui mi parlate non
erano in vendita."
Montecristo si strinse nelle spalle.
"Sappiate, signor intendente" disse, "che tutto è in vendita per
chi sa fissare il prezzo."
"Il signor Danglars li ha pagati sedicimila franchi, signor
conte."
"Ebbene, bisognava offrirgliene trentaduemila... Egli è un
banchiere, e un banchiere non si lascia mai sfuggire l'occasione
di raddoppiare il suo capitale."
"Il signor conte parla sul serio?" domandò Bertuccio.
Montecristo guardò l'intendente stupito che avesse ardito fargli
una simile domanda.
"Questa sera" disse, "ho una visita da restituire. Voglio che quei
cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi."
Bertuccio si ritirò salutando, vicino alla porta si fermò:
"A che ora" chiese, "Vostra Eccellenza conta di fare la visita?"
"Alle cinque" disse Montecristo.
Poi volgendosi ad Alì:
"Fate passare tutti i cavalli davanti alla signora" disse, "e lei
scelga la pariglia che più le piace; e mi faccia dire se vuole
pranzare con me, in questo caso sia apparecchiato
nell'appartamento di lei. Andate, e scendendo mandatemi il
cameriere."
Non appena uscito Alì, entrò il cameriere.
"Battistino" disse il conte, "è ormai un anno che voi siete al mio
servizio: questo è l'apprendistato che di solito fisso alla mia
servitù: sono contento di voi."
Battistino s'inchinò.
"Resta ora da sapere se voi siete contento di me."
"Oh, signor conte!" si affrettò a dire Battistino.
"Ascoltatemi sino alla fine" riprese il conte. "Voi avete
millecinquecento franchi l'anno di salario, vale a dire il soldo
di un bravo ufficiale che arrischia la sua vita tutti i giorni;
avete una tavola che molti capiufficio, servitori disgraziati,
infinitamente più occupati di voi, non potrebbero desiderare di
meglio. Domestico, voi stesso avete dei domestici che hanno cura
della vostra biancheria e dei vostri effetti. Oltre a
millecinquecento franchi di paga, voi mi rubate negli acquisti del
mio vestiario, circa altri millecinquecento franchi ogni anno."
"Oh, Eccellenza!"
"Io non me ne lamento, Battistino, è cosa naturale; però
desidererei che la cosa si limitasse qui. Voi dunque non
ritrovereste un posto simile a quel che vi ha dato la buona
fortuna. Io non percuoto mai la mia servitù, non bestemmio mai,
non mento mai, non vado mai in collera, perdono sempre uno
sbaglio, non mai però una negligenza, od una dimenticanza. I miei
ordini sono ordinariamente brevi, ma chiari e precisi; preferisco
ripeterli due e anche tre volte, che vederli male interpretati.
Sono abbastanza ricco di esperienze, e sono curiosissimo, ve ne
prevengo. Se io sapessi dunque che voi aveste parlato di me in
bene o in male, che aveste fatto dei commenti sulle mie azioni,
sorvegliata la mia condotta, uscireste sul momento da casa mia: io
non avverto un servitore che una sola volta. Ora siete avvertito.
Andate!"
Battistino s'inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi.
"A proposito" riprese il conte, "dimenticavo di dirvi che ogni
anno metto a frutto un certo capitale sulla vita dei miei
domestici. Quelli che licenzio dal mio servizio perdono
necessariamente questa somma, che va in profitto di quelli che
rimangono, e della quale godranno il possesso dopo la mia morte. E
passato l'anno che siete al mio servizio, ed il vostro capitale è
già incominciato; sappiatelo accumulare."
Questo discorso, fatto davanti ad Alì che rimaneva impassibile,
poiché non capiva una parola di francese, produsse su Battistino
un effetto intuibile da tutti coloro che conoscono l'indole del
domestico francese.
"Cercherò di conformarmi su tutti i punti alla volontà di Vostra
Eccellenza" diss'egli, "e per far meglio, seguirò l'esempio di
Alì."
"Oh, niente affatto" disse il conte con una freddezza di marmo.
"Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate
dunque su di lui. Poi egli è un'eccezione: non ha stipendio, non è
un domestico, è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo
dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!"
Battistino aprì due grandi occhi.
"Voi ne dubitate?" disse Montecristo.
E ripeté in arabo ad Alì le stesse parole che aveva dette in
francese a Battistino.
Alì ascoltò, sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a
terra e gli baciò rispettosamente la mano.
Questo piccolo corollario alla lezione mise al colmo lo stupore di
Battistino, cui il conte fece segno di ritirarsi, mentre ordinava
ad Alì di seguirlo. Entrambi passarono nel suo studio, e là si
trattennero lungamente.
Alle cinque il conte batté tre colpi sul campanello. Un colpo
chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio.
L'intendente entrò.
"I miei cavalli!" disse Montecristo.
"Sono attaccati alla carrozza, Eccellenza" rispose Bertuccio.
"Devo accompagnare Vostra Eccellenza?"
"No, soltanto il cocchiere, Battistino, ed Alì."
Il conte discese e vide attaccati alla carrozza i cavalli che
nella mattina aveva ammirati alla carrozza di Danglars. Passando
vicino ad essi vi gettò un occhiata:
"Di fatto sono belli!" diss'egli. "E voi avete fatto bene a
comprarli, solo lo avete fatto un poco tardi."
"Ho durato molta fatica ad averli, e sono costati un po' cari."
"Non per questo i cavalli sono meno belli" disse il conte,
stringendosi nelle spalle.
"Se Vostra Eccellenza è soddisfatta" disse Bertuccio, "tutto va
bene... Dove va Vostra Eccellenza?"
"Rue Chaussée d'Antin, dal barone Danglars."
Questa conversazione si faceva dall'alto della scalinata.
Bertuccio fece un passo per scendere il primo scalino.
"Aspettate, signore" disse Montecristo, "ho bisogno di una terra
in Normandia sulla riva del mare, per esempio fra Le Havre e
Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in
questo luogo vi fosse un piccolo porto, un piccolo seno, una
piccola baia, dove potesse entrare ed uscire la mia corvetta; essa
non pesca che quindici piedi d'acqua. Il bastimento sarà sempre in
ordine per mettere alla vela, a qualunque ora del giorno e della
notte mi piaccia dargli il segnale. Voi v'informerete da tutti i
notai di una proprietà che abbia i pregi che vi ho detto. Quando
l'avrete trovata, andrete a visitarla, e se rimarrete contento la
comprerete a vostro nome. La corvetta deve essere in viaggio per
Fecamp, non è vero?"
"La stessa sera che noi abbiamo lasciato Marsiglia, io la vidi
mettere alla vela."
"E lo yacht?"
"Lo yacht ha ordine di star fermo alla Martigues."
"Va bene. Vi metterete in contatto di tanto in tanto coi due
padroni che comandano, affinché non si addormentino."
"E per il battello a vapore?"
"Non è a Chalons?"
"Sì."
"Gli stessi ordini che per i due bastimenti a vela."
"Bene!"
"Appena comprata questa proprietà, mi fisserete dei cambi di
cavalli di dieci leghe tanto sulla strada del nord, che su quella
del mezzogiorno."
"Vostra Eccellenza può fidarsi di me."
Il conte fece un segno di soddisfazione, discese i gradini, e
saltò nella carrozza, che trascinata al trotto dalla magnifica
pariglia non si fermò che alla porta del banchiere.
Danglars presiedeva una commissione nominata per una ferrovia
allorché vennero ad annunziargli la visita del conte di
Montecristo. La seduta del resto era quasi finita.
Al nome del conte egli si alzò:
"Signori" disse ai colleghi, fra i quali molti onorevoli membri
dell'una e dell'altra Camera, "perdonatemi se vi lascio così... Ma
la casa Thomson e French di Roma m'invia un certo conte di
Montecristo aprendogli a mio mezzo un credito illimitato. Questo è
lo scherzo più insolito che i miei corrispondenti all'estero si
siano permessi con me. Lo capirete bene, sono preso e trattenuto
dalla più grande curiosità. Questa mattina sono passato da questo
preteso conte. Se fosse un vero conte, capirete bene che non
sarebbe così ricco. Ebbene il signore non riceveva. Che ve ne
pare? Queste maniere che si permette il nostro Montecristo, non
sono più adatte a qualche principe o a qualche bella donna?
D'altra parte la casa agli Champs-Elysées che è sua, me ne sono
informato, dev'essere costata un patrimonio... Ma un credito
illimitato" riprese Danglars, ridendo col suo villano sorriso,
"rende molto esigente il banchiere sul quale viene aperto. Ho
dunque fretta di vedere il nostro uomo. Mi credo raggirato. Ma
quelli laggiù non sanno con chi hanno a che fare: riderà bene chi
riderà ultimo..."
Terminando queste parole, e dandogli un'enfasi che gli gonfiò le
narici, lasciò i suoi ospiti, e passò in un salone bianco e oro
che godeva gran fama nella Chaussée d'Antin. Là aveva ordinato che
fosse introdotto il visitatore onde abbagliarlo al primo colpo.
Il conte era in piedi, e stava considerando alcune copie
dell'Albano e del Fattore vendute per originali al banchiere, e
che, per quanto fossero copie, spiccavano molto sugli arabeschi
d'oro e di tutti i colori che adornavano il soffitto.
Al rumore che Danglars fece entrando il conte si volse. Danglars
fece un leggero cenno di testa, indicando colla mano al conte di
sedersi in una seggiola di legno dorata, con cuscini di seta
bianca broccata in oro.
Il conte si sedette.
"Ho l'onore di parlare al signor di Montecristo?"
"Ed io" rispose il conte, "al barone Danglars, cavaliere della
Legion d'Onore, membro della Camera dei deputati?"
Montecristo ridiceva tutti i titoli che aveva ritrovati sul
biglietto da visita del barone.
Danglars sentì la botta e si morse le labbra:
"Scusatemi, signore" disse, "di non avervi dato subito il titolo
sotto il quale mi siete stato annunziato, ma voi lo sapete, noi
viviamo sotto un governo democratico..."
"Di modo che" rispose Montecristo, "conservando l'abitudine di
farvi chiamare barone, avete perduta quella di chiamare gli altri
conte."
"Ah, non ci faccio caso neppure per me" disse negligentemente
Danglars. "Mi hanno fatto barone e cavaliere della Legione d'Onore
per servigi resi, ma..."
"Ma voi avete abdicato ai titoli, come in altro tempo hanno fatto
Montmorency e La Fayette? Questo è un bell'esempio da seguire,
signore."
"Però non del tutto" riprese Danglars impacciato, "per i
domestici, capirete..."
"Sì, voi siete barone per la servitù, e cittadino per i
giornalisti, e per i vostri committenti."
Danglars si morse le labbra. Vide che su quel terreno non era
della forza di Montecristo, cercò dunque un terreno più familiare.
"Signor conte" disse inchinandosi, "ho ricevuto una lettera
d'avviso della casa Thomson e French."
"Ne sono contento, signor barone. Permettetemi di trattarvi come
la vostra servitù; è una cattiva abitudine presa nei paesi ove vi
sono ancora dei baroni, proprio perché non se ne fanno di nuovi.
Ne sono contento, dicevo, non avrò bisogno di presentarmi io
stesso, la quale cosa è sempre imbarazzante. Voi dunque avete
ricevuto una lettera di credito?"
"Sì" rispose Danglars, "ma vi confesso che non ne ho bene capito
il senso."
"Bah!"
"Ed anzi avevo avuto l'onore di passare da voi per domandarvene la
spiegazione."
"Fatelo, signore, eccomi, io ascolto, e sono pronto a
rispondervi."
"Questa lettera" rispose Danglars, "credo d'averla con me."
Si frugò nelle tasche.
"Eccola, sì. Questa lettera apre al signor conte di Montecristo un
credito illimitato sulla mia casa."
"Ebbene, signor barone, che vi trovate d'oscuro?"
"Niente, signore, fuorché la parola illimitato..."
"Ebbene, questa parola non è forse francese? Capirete che sono
anglosassoni che scrivono."
"Oh via, signore per la sintassi non c'è niente da ridire, ma non
è così per la contabilità."
"Perché, la casa Thomson e French" chiese Montecristo coll'aria
più ingenua che avesse potuto assumere, "non è a vostro avviso
abbastanza sicura, signor barone? Diavolo, mi spiacerebbe, perché
ho depositati su di essa alcuni capitali."
"Ah, perfettamente sicura" rispose Danglars con un sorriso quasi
beffardo, "ma la parola illimitato, in materia di finanza, è tanto
vaga che..."
"Che è illimitata, non è vero" disse Montecristo.
"Precisamente questo volevo dire. Ciò che è vago è dubbio, ed il
saggio dice: astieniti dal dubbio."
"Che è quanto dire" replicò Montecristo, "che se la casa Thomson e
French è disposta a fare delle pazzie, la casa Danglars non è
disposta a seguirne l'esempio."
"Che significa, signor conte?"
"Sì, senza dubbio, Thomson e French fanno gli affari senza cifre,
ma il Signor Danglars dà un limite alle sue; è un uomo saggio,
come si vantava poco fa."
"Signore" disse orgogliosamente il banchiere, "nessuno ha ancora
fatti conti nella mia cassa."
"Allora" disse freddamente Montecristo, "sembra che sarò io a
cominciare."
"E chi vi ha detto questo?"
"Le spiegazioni che voi mi chiedete, e che somigliano molto
all'esitazione."
Danglars si morse le labbra; era la seconda volta che veniva
battuto da quest'uomo, e questa volta sopra un terreno che era il
suo. La sua compitezza mordace non era che apparente e sfiorava
l'impertinenza. Montecristo al contrario sorrideva colla maggior
grazia del mondo, e quando voleva, possedeva una cert'aria di
leggerezza che gli dava molti vantaggi.
"Finalmente, signore" disse Danglars dopo un momento di silenzio,
"cercherò di farmi intendere, pregandovi di fissare voi stesso la
somma che contate riscuotere da me."
"Ma, signore" rispose Montecristo, risoluto a non perdere un
pollice di terreno nella discussione, "se ho chiesto un credito
illimitato su voi, fu precisamente perché non sapevo di quale
somma potevo aver bisogno."
Il banchiere credette finalmente giunto il momento di prendere il
sopravvento; si rovesciò sul suo seggio, e con un grossolano ed
orgoglioso sorriso:
"Oh, signore, non abbiate alcun timore nel chiedere... Potrete
convincervi che le cifre della casa Danglars, per quanto limitate,
possono soddisfare le più grandi esigenze, e potreste anche
chiedere un milione..."
"Sarebbe a dire?" disse Montecristo.
"Dico un milione" disse Danglars colla sostenutezza dello stolido.
"E a che mi servirebbe un milione?" disse il conte. "Buon Dio,
signore, se non mi fosse abbisognato che un milione, non mi sarei
fatto aprire un credito su voi per una simile miseria. Un milione!
Ma ho sempre un milione nel mio portafogli, nel mio scrigno da
viaggio."
E Montecristo cavò dal piccolo taccuino, entro cui teneva i
biglietti da visita, due assegni di cinquecentomila franchi l'uno,
pagabili dal tesoro al portatore. Bisognava accoppare, e non
pungere un uomo come Danglars. Il colpo di mazza fece il suo
effetto: il banchiere vacillò, ed ebbe la vertigine, spalancò su
Montecristo due occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò a dismisura.
"Vediamo, confessatemi" disse Montecristo, "che diffidate della
casa Thomson e French. Mio Dio, la cosa è semplicissima. Io però
ho previsto il caso, e sebbene estraneo agli affari ho preso le
mie cautele. Ecco dunque due altre lettere simili a quella che vi
fu scritta: una è della casa Arstein e Eskeles di Vienna sopra il
signor barone Rothschild, l'altra è della casa Baring di Londra
sul signor Laffitte. Dite una parola, signore, ed io vi toglierò
qualunque preoccupazione, presentandomi all'una o all'altra di
queste due case."
Era finita: Danglars fu vinto. Egli aprì con un visibile tremore
la lettera di Vienna e quella di Londra che gli venivano
presentate sulla punta delle dita dal conte, verificò
l'autenticità delle firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato
un insulto per Montecristo, senza la confusione del banchiere.
"Oh, signore, ecco tre firme che valgono bene dei milioni" disse
Danglars alzandosi, come per salutare la potenza dell'oro
personificata nell'uomo che aveva davanti. "Tre crediti illimitati
sulle nostre tre prime case! Perdonatemi, signor conte, ma mentre
cesso di essere diffidente, mi sarà permesso d'essere
meravigliato."
"Oh, non sarà già una casa come la vostra, quella che si
meraviglia di ciò!" disse Montecristo con tutta cortesia. "Dunque
mi manderete un po' di denaro, non è vero?"
"Parlate, signor conte, sono ai vostri ordini."
"Ebbene, ora che c'intendiamo... Perché già c'intendiamo, non
vero?"
Danglars fece un segno affermativo colla testa.
"E non avrete più diffidenza?" continuò Montecristo.
"Oh, non ne ho mai avuta" disse il banchiere.
"No, desideravate una prova, ecco tutto. Ebbene" ripeté il conte,
"ora che c'intendiamo, ora che non avete più alcuna diffidenza,
fissiamo, se volete, una somma per il primo anno... sei milioni,
per esempio."
"Sei milioni, sia!" disse Danglars soffocato.
"Se mi occorrerà di più" disse Montecristo con trascuratezza,